di Davide Rondoni
Daniele Mencarelli, Degli amanti non degli eroi, Mondadori 2024
Il libro di Daniele Mencarelli offre un distico romanzesco in versi che dà forma e immagine al titolo.
Se il delicato romanzo adolescenziale per quadri epico-lirici della prima parte mette in scena l'amore salvifico di Gabriele per Anna, il secondo, costruito per scene tra surreale e epico in un albergo di lusso, inscena la violenza degli eroi, con tanto di nota finale in cui l'autore, seguendo una linea abbastanza diffusa di poesia che invita alla virtù, auspica un mondo senza culto degli eroi e che ammiri maggiormente gli eroi del perdono. Ok, semplice dunque. Chiaro. O forse no, forse il poeta Mencarelli, come dai suoi primi passi che seguii e incoraggiai anni fa, risiede nelle intersezioni, nelle soste controtempo del suo compiuto e pur condivisibile discorso. Là dove appunto non prevale il discorso e si affacciano - e accade in moltissimi punti del bel libro - gesti, flash, accenni che mostrano il suo sguardo tutt’altro che fragile al mondo. Fragili possono essere i nervi, le emozioni, i pensieri, a volte i corpi, ma lo sguardo di Daniele è forte, di una forza che appunto fa da contrappeso alle possibili fragilità, perché è quello - dice lui medesimo caproneggiando o meglio rifacendosi a una lunga tradizione ("stirpe" dice') - di chi vive la vita come "caccia". Per questo, come cacciatore nel folto può sorprendere segni (Anna che lascia la spesa da portare a Gabriele come segno di perdono, ad esempio).
Se non fosse attraversata, anzi motivata, dallo sguardo del cacciatore, la storia in versi dell'amore adolescenziale di Anna e Gabriele sarebbe solo una vicenda che vira nel patetico (come troppa letteratura fa oggi per garantirsi facile audience da "consolazione") invece d'esser come a me pare una "vita nova" di periferia. Se così non fosse, il libro sarebbe una pura giustapposizione moralistica dai toni patetici la prima parte e epicovisionari la seconda. Invece è un corpo intero, una indagine sull'amore e sul potere, sulle due grandi forze che muovono il cuore umano e dunque la storia. Le corse in motorino di Gabriele, le sue liti con gli amici, la gratitudine a un "niente" che poi diventa "Tu" per il miracolo della presenza amorosa e gratuita di Anna/Beatrice, lo schiarirsi nella coscienza della forza dell'amore autentico, che è riconoscere la grandezza, come avviene similmente in un'altra poetessa attuale delle zone dei Castelli romani, Flaminia Colella o in un narratore sempre di quelle zone come Aurelio Picca, così come gli scorci di vita domestica, tutto questo, insomma, è il teatro di una caccia tanto quanto l'assistere all'episodio tra fantasmatico e surreale del poker tragico tra gli eroi nelle stanze notturne del Lux Hotel. Cosa è vero? La perdita, il massacro dei poteri o che cosa? La medesima natura allegorica del secondo poemetto, tratteggiato con realismo narrativo e cura dei personaggi, tanto quanto il primo apparentemente realistico, invita il lettore a cogliere che quanto sta vedendo non è una storia o due storie, ma una messa in scena. Vale per l'amore di Anna e Gabriele come per il notturno poker. E la poesia, nutrita certo della biografia e delle vibratili emozioni personali, nonché dalla lingua madre, quando si fa teatro, scena (come avviene nella Commedia di Dante, nei Sonnets di Shakespeare ne Il franco cacciatore di Caproni o in Per il battesimo dei nostri frammenti di Luzi e in molti altri) sa di correre il suo rischio più alto, e di adempiere al suo compito più esposto al fallimento. L'unico che vale la pena correre maneggiando versi, parole accese: interpretare la scena con altre scene, cogliere il mistero della creazione creando. Altrimenti basterebbero altri sguardi, altri discorsi e la poesia ne sarebbe solo una variabile secondaria, una espressione possibile, invece che uno sguardo diverso, acceso, necessario.