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Gli sguardi tra pittura e cinema di Daniele Giustolisi

di Erika Di Felice

Daniele Giustolisi, Alla finestra. Sguardi soglie e fratture tra pittura e cinema, Industria&Letteratura, 2023

Credo che ognuno custodisca nella memoria in maniera più o meno accessibile una qualche visione che riguardi una finestra o che fisicamente abbia trovato un teatro tra le sue imposte.
Tra le mie tante, quella che personalmente riemerge con più potenza e costanza mi riporta a Cefalù, dove sono stata ben prima di conoscere Daniele Giustolisi e il suo amore per l’argomento.
Nella stanza delle udienze del Museo del Duomo, accanto alla sedia vescovile, una tenda semitrasparente ondeggiava mossa dal vento in un movimento che con un’inquietante carica ipnotica mi convocava al cospetto di qualcosa: oltre la soglia della finestra, il blu velluto del Mar Tirreno si apriva sotto ai miei piedi con quella forza perversa che davanti agli abissi fa vacillare la ragione. Violentissima. Se ci ripenso, mi toglie ancora il respiro.
Ma il mare, in verità, è ben lontano da quella finestra. L’orografia della città non avrebbe mai concesso certi voli.

Eppure Daniele Giustolisi nel suo libro riesce bene a dare corpo a vertigini come questa, mosso dalla consapevolezza che – per dirla con le parole di Sinisgalli – all’uomo «interessa la divisione del mondo in una sfera visibile e una sfera invisibile» e, ancora di più, che certe «produzioni di senso», come lui stesso definisce l’arte, la letteratura e la psicologia – e mi permetto di aggiungere l’architettura, di cui la finestra costituisce una delle componenti funzionali e storicamente un importante oggetto di dibattito teorico – necessitano della parola per essere nominate, umanizzate.

In nome di questi principi nel testo vengono idealmente tracciate una serie di quelle che Kandinsky avrebbe definito “superfici di fondo”, intese come luogo della rappresentazione di tensioni che l’autore di volta in volta porta alla coscienza.
Il lettore ha quindi modo di porsi dinanzi a una serie di finestre delle tipologie più disparate, ora rinascimentali, ora ottocentesche; dipinte, fotografate, filmate.
Tutte mostrate – non narrate – con un’alternanza di toni filosofici e psicologici ben lontani dalla pura estetica della forma, poiché poste in contatto diretto con l’osservatore che ne attraversa in prima persona la trama.
Tutte mostrate con un motivo di fondo: la costruzione di un senso.

Un senso costruito attivamente, alla maniera architettonica, ben capace di accostarsi a Paul Valery quando dice che «vedere […] È costruire. Corrispondenza con il corpo spettatore, che valuta si perde e si ritrova», spogliando l’elemento finestra-infisso della sua funzionalità per collocarlo in una dimensione di dilatazione dei sensi, di indagine del riverbero in chi osserva di ciò che viene osservato.

In questo risiede la forza della ricerca condotta nel libro, nella quale emerge la capacità propria del Poeta: l’aver indicato la via per un’esperienza del reale che sia di accrescimento di significato, lo spingere all’osservazione e lettura del mondo con un costante rimando ad un Oltre in sottotesto; in ultimo, l’aver individuato una delle maniere per abitare poeticamente il mondo, non raccontandolo ma patendo in prima persona l’impatto della vera guerra: la vita, guardata da milioni di finestre.

Chi mi parla di libri carte e arte mi atterrisce
(di donne, di storia-e, di paesaggi).
Chi mi parla mi uccide.
Mi è mancato così poco per vivere
Così poco per sfuggire alla vita.
(Andrea Zanzotto – La Beltà)

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