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Je vois une rose dans le ténèbres…

di Fabio Barone

 

«Se la rosa inganna l’usignolo, allora la spina compie il suo dovere»

 
Sayat-Nova è un poeta appartenente alla cultura degli ashug (i trovatori), nasce a Tiflis (Georgia) fra il 1712 e il 1722.
Dai cenni biografici in nostro possesso sappiamo che all’età di dodici anni viene affidato a un artigiano, dal quale impara la raffinata arte della sartoria — numerosi i versi in cui l’abito e la donna sono celebrati dal poeta:
«muti in un giorno trenta colori, ma nessuno rassomiglia al tuo tulle»; oppure «Vestita d’umile tela e di fili d’oro, tutto tramuti in stoffa di pregio, graziosa, / perciò chi ti vede esclama – meraviglia, oh meraviglia – graziosa.»
All’età di 14 anni, ormai esperto, invia al maestro una veste d’onore da lui stesso confezionata, termine ultimo dell’apprendistato da sarto.
Attribuisce ai 16 anni l’acquisizione della scrittura, e sente di aver compiuto la prima esperienza poetica a 18 anni:

 

«ebbi percezione della rosa e del suo giardino».

 
Ma all’età di 25 anni avviene la sua prima rivelazione poetico-amorosa:

 

«entrando nella pubblica piazza, i miei occhi furono quasi accecati da un incantamento».

 
Curioso è il fatto che ricordi i versi di un altro innamorato-folgorato:
 

[…] e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

 
C’è un’antica formula appartenente alla cultura degli ashug che recita “Essi hanno raggiunto il loro desiderio, possiate raggiungere anche voi il vostro desiderio”. Alla natura complessa del desiderio è legato Surb Karapet, San Giovanni Precursore, patrono degli ashug, un santo che ispirava i poeti, guariva gli ammalati e proteggeva i fidanzati. Fu maestro e ispiratore per Sayat-Nova, che prima di stabilirsi alla corte di Irakli compie un pellegrinaggio presso il tempio di Mush, dove risiedeva il santo:

 

San Giovanni Precursore, sultano di Mush, le tue lodi sono giunte fino al cielo.
Primo maestro di verità, non c’era chi ti fosse eguale,
i tuoi discorsi erano gemme inestimabili, versavi rubini dalla tua bocca.
Nel seno di tua madre già ti prostravi, meraviglia per i tuoi genitori,
dal deserto gridavi le tue parole, con le tue labbra miracolose.

 
La vita del poeta armeno è scandita da due improvvisi rovesci di fortuna nel corso di circa vent’anni: è accolto alla corte di Irakli, esaltato per una decina d’anni poi allontanato; reintegrato, per poi essere definitivamente esiliato dopo sei o sette anni. È infine costretto dai suoi signori all’abito sacerdotale, in qualità di k’ahanay (prete sposato).

La sua più intensa e vibrante attività poetica si dispiega proprio alla corte di Irakli, fra il 1742 e il 1759. Qui l’incontro con la principessa Anna Batonishvili, sorella di Irakli II, sposa dal 1744, ispira al poeta versi sinceri e appassionati di cui il canzoniere è denso testimone:

[…]

M’hai tolto il senno, tu m’hai stupito,
facendo mostra del tuo vitino.
È con quel fuoco che mi hai bruciato,
della mia morte puoi ben gioire,
ahi amore!

[…]

Sei tesoro d’amore, amabile,
pietra preziosa inestimabile,
il rubino e la perla più pura,
onore ti devo
finché sono vivo,
perché questo mondo è passeggero.

[…]

Questa è la mia preghiera, vita mia,
con te la mia giornata si dimezza, vita mia,
questa è la passione, vita mia,
vita mia, sei vita,
sei incomparabile,
il mondo è imparare a vedere, vita mia.

[…]

Non sei che un canto, Sayat-Nova,
non sei che una cicatrice, Sayat-Nova,
non sei che un giardino, Sayat-Nova,
e distendi il tuo capo come un tappeto,
ahi amore!

**

Amore è fuoco ardente e bruciando viene.
Molti sanno dire «Vado col mio amore…»
Chi non soffrì il dolore non sa cos’è patire.
Chi al suo amore vuol bene non può più dire «Sto bene».

Molti hanno da sempre questa pena nel cuore,
quelli che non ne soffrono ignorano la passione.
insensibile amore c’impone quel che vuole,
sono sciolto, consumato: come posso star bene?

Ha mille forme, mille ritmi, là dov’è, la passione,
dormono nel suo hascisc coscienza e percezione,
trattiene la sua preda con artigli tenaci,
torno d’un passo indietro per ogni passo avanti.

[…]

Sayat-Nova ha detto: «L’impegno mio fu lungo.
Mai ebbi la lealtà di chi si nutre di latte crudo.
Amor chi non mi porta più non voglio amare,
ma se amore porta amore, anch’io verrò da amante».

**

Fammi bere dalla coppa delle tue mani,
dico l’acqua, offrimela da quella tazza.
[…]
O luce dei miei occhi, l’acqua invoco,
non dico il fuoco, non dico il fuoco,
non invoco la spada, né ti dico dammela.
[…]
Che San Giovanni renda folle
chi m’ha fatto impazzire,
e il volto del malvagio si tinga di nero.
O luce dei miei occhi, invoco la fuliggine,
non invoco la malattia, non la malattia,
invoco la fuliggine, non la malattia.

Ho bevuto del tuo amore, mi sono inebriato,
e sono andato incontro alla morte.
Sono Sayat-Nova, son venuto ad ammirarti.
O luce dei miei occhi, perché lo dico?
Non invoco la spada, non la spada,
non ti dico dammela, non invoco la spada.

 
«Perché lo dico?», domanda che può farsi solo chi rinsavisce per un attimo dal desiderio, dall’ardore di un fuoco che consuma. ‘Fuori di sé’ al punto da paragonarsi al personaggio di una classica storia araba di amore contrastato:
 

Sulle montagne vado vagando come Majnun senza notizie di Leyla,
della tua passione brucia il mio cuore, non ho refrigerio alcuno.
Dio m’è testimone, a questo mondo, fuor di te non ho altro amore.

**

Come Majnun ho perduto l’amata,
e ti vado cercando, o Leyla cara,
ardendo, ardendo.

 
Leyla e Majnun, nota anche come Il Folle e Leyla, è la storia antica di un uomo realmente vissuto, Qays ibn al-Mulawwaḥ, che impazzisce quando il padre gli vieta di sposare la donna di cui è perdutamente innamorato.

L’unica dolce consolazione che il poeta sembra avere, oltre la poesia, sembra essere lo strumento col quale accompagna i suoi versi, il k’amanch’a, una sorta di lira greca, strumento a corde:
 

Orchestra perfetta, lodato fra gli strumenti, kamancià,
l’uomo da nulla non sa vederti, gli sei vietato, kamancià,
tua meta sia giungere nei giorni migliori, kamancià,
chi osa staccarci, sei tu l’agone del trovatore, kamancià.

La chiave, orecchio d’argento, la cassa gioiello di gemme,
sul manico avorio istoriato, sul ventre madreperla,
nell’oro son tese le corde, si apre la rosa nel ferro,
nessuno sa dire il tuo pregio, rubino e diamante, kamancià.
[…]
Tu volgi al sorriso il cuore più triste, plachi il tremore all’infermo;
se intoni la tua voce dolce, si schiude alla gioia il tuo danzatore,
rivolgi alla gente la tua preghiera, che dicano: «Viva il tuo cantore!».
Finché vive Sayat-Nova, gioie t’attendono molte, kamancià.

 
È dal verso posto in esergo che nasce la danza del poeta, ne segna il destino, il canto:
 

Finché son vivo e a te m’immolo, che posso fare, amore?
[…]
vieni andiamo nella selva, giungiamo al laghetto, delle gazzelle è l’ora,
proteso alla rosa è l’usignolo, la rosa si protende alla vigna, è l’ora del diletto.

 
La rosa di Sayat-Nova non è un simbolo, è al centro di una visione che lo muove, lo anima, lo ferisce, ne evoca la parola, ‘qualcosa’ chiede di essere pronunciato: è la voce del desiderio?
 

[…]
per te ho perso le forze, amore, sulla siepe son rimaste impigliate le tue chiome.
Il giardino è nel suo splendore, sui rami della rosa l’usignolo dorme.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto, amore, con le implorazioni.

 
Testi e informazioni storiche sulla cultura e la vita del poeta, tratti da:
Sayat-Nova, Canzoniere armeno, Edizione bilingue, a cura di Paola Mildonian, Edizioni Ariele, 2015.

 
Photocredit: armeniagogo.com

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