di Irene Santori
Francesca Serragnoli, La quasi notte, MC Edizioni 2020
Si apre con una dedica “agli amici” che sa di mani protese in un brindisi, La quasi notte. Ma immediatamente dopo, “la propria stessa mano” è “crollata”. Da quel verso in poi impressionano le occorrenze, ovvero l’assillo, con cui la poetessa Francesca Serragnoli ricorre al verbo e alle immagini della caduta: di nuovo cadono le mani, come i capelli, e cadono la farfalla, la sera, i baci, l’espressione, cade la vita da una finestra e la casa stessa, frana l’aria e “divinamente” le foglie, ancora cadono le palpebre, la nube, il ghiaccio, l’arancia, il cuore cade due volte. E ciò che non cade pur sempre si abbassa, scende, scivola: volersi bene “è un precipizio levigato”. La sola a non cadere è la lacrima, che sinistramente e innaturalmente “rimane lì tutta la vita”. Solo per questo si potrebbe parlare di gravità ne La quasi notte e di un peso che grava sulle parole stesse, digradandole di associazione in associazione fino allo stadio più prossimo al poco. Il brindisi immaginato della dedica, dopo una manciata di versi viene tematizzato, lo precede l’immagine di un “calice”, riempito di “pianto dal costato”, impossibile non pensarlo amaro, come il calice del Getsemani in una poesia che guarda al Calvario, eppure mischia “Dio e spumante”, in un avvitamento che un che di amaro lo mette nella bocca di chi legge. Pochi versi più in là, un’interrogativa quasi vilipende il pianto in “buffonata”, giù giù fino al calice “catetere desolante che lo raccoglie”.
Rimangono le altezze di un Dio detto assertivamente e dell’“ape di Cristo”, ma per nostra fortuna queste poesie non sembrano accomodarsi in una postura da innario, non chiamano a un innalzarsi, a un risveglio, né pensano di mimare la Noche oscura di Juan de la Cruz, che per raggi di tenebra e a furia di salire approssima all’unione mistica, giacché “la quasi notte” è tutto un cadere. Altrimenti è uno stare pericolante in un limbico bilico, un quasi sonno o una quasi veglia; essa è forse quel temporeggiare delle tenebre non ancora cadute, oppure dell’alba che non si alza, e si sta perplessi in quell’intermezzo, fissi come quella lacrima fattasi statua di sale. Altrimenti la quasi notte è quando il popolo di immagini che l’io diurno incamera dalla nascita, va ad addossarsi al limine, come panche di legno attorno alla bara di zio, in una chiesetta lunga ma corta, ibridando paesaggi, impastando figure turbate senza alcuna prudenza. Allora, piuttosto, queste strane laudi, che si direbbero tornate ad esser scritte in volgare, patiscono l’attrito della trinità “triciclo” nel “cigolio della carne”.
Peculiare dell’autrice e incisivo è “quel poco di pudore” con cui sa manomettere i codici, le pertinenze, e non per stancanti e cerebrali arguzie, ma per intelligente solidarietà col fuori contesto, riesumato, o metabolizzato, o proiettato, che la porta ad un ispessimento del senso e ad una reinvenzione. “Continuamente da reinventare” – ammonisce il teologo poeta Olivier Clément citato in apertura della terza sezione del libro – “è il rapporto fondamentale tra la morte-resurrezione e la parola”.
In quella reinvenzione si gioca la partita poetica di Serragnoli, vinta finché il campo è permeabile e bersagliato da ciò che incombe fuori, mentre è un po’ meno efficace nella prosa Appunti sparsi con cui chiude la raccolta. Vi è un certo rammarico che non abbia stipato nella speciale misura e intransigenza dei suoi versi anche quest’ultima propaggine, diluendo la distillazione che con tanta originalità aveva addensato, quasi negli appunti si mettesse ad altercare con l’arbitro anziché tirare e basta. Ne sfiliamo un frammento e ci ricamiamo su: “ragionare sulla poesia è come tenere in equilibrio tre arance con due mani e sentirne sempre cadere una”. Può darsi che quel terzo frutto caduto sia proprio la poesia, gemello, però, dei due che invece stanno e si tengono nella perfetta conformità dei nessi e dei vincoli logici, ma che, spostato, intelligentemente sonda le adiacenze.
La voce poetica di Francesca Serragnoli è quel lucido, pieno frutto, che nello staccarsi e cadere trova esatta angolazione e nel “risalire ha la bruciante paura dell’acqua / di evaporare, diventare niente”.