di Emanuela Chiriacò
Poesie (1970-1983) di Salvatore Toma (Musicaos Editore 2020, collana Fogli di Via 2) a cura di Luciano Pagano con interventi di Benedetta Maria Ala, Lorenzo Antonazzo, Annalucia Cudazzo, e Simone Giorgio è un volume che raccoglie per la prima volta l’intera opera poetica di Salvatore Toma.
Il lavoro include: Poesie. «Prime Rondini» (Roma, Gabrieli, 1970); Ad esempio una vacanza (a Babi) (Roma, Gabrieli, 1972); Poesie scelte (Catanzaro, Ursini, 1977); Un anno in sospeso. Maggio 1977- luglio 1978 (Poggibonsi, Lalli, 1979); Ancòra un anno con prefazione di Donato Valli (Cavallino, Capone, 1981); Forse ci siamo con presentazione di Oreste Macrì (Lecce, Quaderni del «Pensionante», 1983); Canzoniere della morte a cura di Maria Corti (Torino, Einaudi, 1999) e l’edizione limitata fuori commercio Il Tomaverso. Di anime animali creature senzienti (Maglie 2017), realizzata dal Comune di Maglie e dalla Fondazione “F. Capece” in occasione del trentennale della sua morte.
Il volume di Musicaos è dunque un prezioso riconoscimento e consolidamento della poesia tomiana, un risarcimento morale al poeta, morto nel 1987, a soli trentacinque anni, nell’ospedale di Gagliano del Capo per una cirrosi epatica causata da abuso di alcol e un conseguente shock anafilattico. Per la libraia ed editrice Giuliana Coppola, fu Maria Corti a forzare un po’ la mano sul presunto suicidio di Toma per convincere Einaudi a pubblicare “Canzoniere della morte” nel 1999.
E pensando al più famoso Canzoniere petrarchesco, la vita di Toma incarna a pieno il sonetto CXXXIV: un guerriero che non trova pace e non ha da far guerra a cui egualmente […] spiace morte et vita.
Nell’opera di Toma, Donato Valli ravvisa tre “reversibilità”: quella da uomo ad animale; l’altra fra sogno e realtà; e la terza, infine, della diade vita-morte, e in ognuna delle tre, l’olfatto del poeta è accompagnato dall’ossessivo afrore della morte, ma la morte non è una metafora né un simbolo, è un mezzo per non dimenticare la purezza che il poeta sa di poter trovare solo nel mondo animale, il suo prossimo evangelico. E la sua poesia selvatica e selvaggia, per certi aspetti antropocenica, vede nel desiderio esiziale una prefigurazione: la trasformazione della terra in uno sconfinato prato fiorito abitato da animali.
Per Toma dunque la morte è un’ispirazione di pacata positività, di inesorabile trasformazione della materia; non il luogo sospensivo del dolore, ma quello dell’innocenza universale, dove trovare finalmente, lontano dai “capogiri” della vita, la distanza emotiva di sicurezza dalla laidezza umana.
Dunque un’arma che lo allontana dal ricatto della normalità, dall’esercizio gratuito della prevaricazione e della violenza.
Canzone notturna (9.12.79)
[…]
Anche da morto
io sarò un ribelle
uno strano tipo
giacché non c’è altro modo
oltre la morte
di curare i rimorsi i dispiaceri
la noia dei soprusi
le bruttezze le violenze
i capogiri della vita.
Mi sentirò bene anche da morto
e puro e semplice e ribelle.
In questa poesia risulta chiaro come la morte si trasformi da umiliazione estrema a status nobile della dignità perché Toma è il poeta che diluisce la condizione umana in quella naturale, mantenendo la spigolosità della costa salentina, che a Punta Melisio lascia l’illusione ai mari Ionio e Adriatico di potersi abbracciare, e la profondità carsica del paesaggio rurale.
È così che il Poeta incarna l’essenza più cruda, selvaggia e isolazionista del Salento, la terra dove finisce la terra. Una terra verso la quale, la luce è talmente impietosa da far bramare a molti la notte[1], soprattutto a chi, come lui, ci viveva da straniero.
Uno straniero con il fuoco nel sangue e l’anarchia nello spirito che lo rendono avulso a tutte le etichette sempre attribuitegli: su tutte un certo maledettismo da cui si discosta per fenomeni d’interferenza onirica, ancestrale, allucinata e fiabesca, di un corpo nudo perennemente lambito dalla liquidità amniotica della vita poetica, lontano da nichilismi e aneliti di distruzione. E tra la vita e la morte si consuma nel mezzo l’angoscia filiale, se volessimo scomodare Jodorowsky, la meta-genealogica da cui scaturiscono i primi conflitti, i tabù sessuali, il turbamento erotico che lo “educano” alla salvifica ribellione, al non essere schiavo dell’ipocrisia dell’omologazione culturale e sentimentale.
Quella di Toma è una voix off che cerca la libertà, il perpetuarsi di una spontaneità, e attraverso un sarcasmo e un’ironia peculiari e dissacranti la possibilità di sostenere quell’ineluttabile attesa, godendosi nel frattempo la vita in ogni momento, piuttosto che avere alla fine la fregatura del monumento.
È il poeta che avrebbe voluto nascere vecchio e morire bambino per vivere una vita alla rovescia, per morire in fasce perché un bambino/ muore forte innocente/ con tanta voglia di vivere/ non muore seccato/ come un vecchio deluso; è il poeta che ha vissuto quell’illusione perduta chiedendosi se la realtà/ sono gli occhi/ il naturale il tangibile/ oppure lo sgambetto l’alcol/ il perdono impossibile.
[1] Daniele Coluccia (III Liceo classico F. Capece di Maglie, a. sc. 1997-98), Il Tomaverso. Di anime animali creature senzienti, Comune di Maglie e Fondazione F. Capece, 2017, pag. 61
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