di Alessia Iuliano
Valentina Demuro, Che i fichi nascano rossi, Italic peQuod 2024
Cosa vuol dire essere nel mondo? Stanziare per quel tempo che ci è dato in questo spazio tra i suoi “confini / e una fede / così attaccata alla vita e alla terra / la terra che porta tutto il sangue / come un’eco cavernosa e antica”?
E cosa vuol dire per la propria vita assumere a traiettoria di senso la categoria del dolore, come un portale, “un giardino segreto” dice la poetessa, che apre dalla dimensione terrestre all’incantesimo di un cielo di presenze-assenze-attese che non ci lasciano soli, nemmeno nell’abbandono?
Chiaramente non si tratta di un patteggiamento, non ci possono essere compromessi “nel tempo assoluto / che sommerge e non si decodifica […] nulla accade e tutto precipita insieme”; imparare perciò “ad abitare i propri vuoti” per la poetessa - specie oggi, in contrasto col trend del tempo compresso su Instagram, con un carosello di una decina di fotografie random, sufficiente a riassumere il mese di maggio 2024 - forse rappresenta, invece, la strategia per prendere di petto, con coraggio, senza far finta che non sia reale, tutta quell’inquietudine, quella tremenda e pure profonda connessione al “ritmo di cose minime” che rende alcuni esseri tra noi, più di altri, permeabili al divenire vita della vita, qualsiasi traiettoria questa offra, arrivando persino “a toccare / anche la bocca del tulipano / che non ha mai bucato terra”.
Così Valentina Demuro proprio a partire da una delle prime poesie del suo nuovo volume, nonché quella che dona poi all’opera il titolo, ci invita - è una preghiera - a “credere possibili altre vie”; in quest’ottica tutto il libro mi pare essere un profondo e intimo dialogo dell’essere con la storia (“un intrico di storie, di voci, di cocci. / Stiamo con questo sentire, assorti / di spalle al limite aperto / sui nostri abissi”), personale - dell’autrice - e pure universale - dell’umanità. Una narrazione, lungo ciascuna delle tre sezioni di cui si compone la raccolta, che vede trionfare, inevitabilmente, il sentire di donna, nel senso più corporeo, generativo, del termine; un sentire che non è debole sentimento ma amorevole sguardo. Un amore che ci regala versi di una vulnerabilità tremendamente femminile, materna, straordinaria: “io che non ho generato niente / cullo il male reciso / di una madre”.
Un amore “che ha premura di essere”, scopre “il peso del niente”, attraversa la propria genealogia e di fronte “i diversi modi/di chiedersi del domani” si fa meravigliosamente “Sentimento di casa”, o - in pedagogia diciamo - casa interiore, tutto ciò di cui hanno bisogno un uomo, una donna per non dirsi soli, persi di fronte l’infinito o Dio.
A Valentina Demuro, allora, va detto grazie, Che i fichi nascano rossi, questa è la speranza.
Ci avevano detto di pregare
trattenere la luce nelle mani
una culla per proteggere la notte
dal vento che chiude gli occhi
il vento che scuote
lo spavento dei papaveri.
Ma il loro tremito
mai muove a pietà il cielo
quando è nero come una guerra
e mangia il silenzio
gli uomini, le loro case
*
Dove si fa veglia o sonno
questo viaggio
e riesce a splendere intero un sorriso
o l’orrore assedia il cuore senza più fiato
dove tramonta l’oro dei giorni
un riverbero lo dice, lontano
forse un suono
un ricordo dal futuro.
restiamo appesi, talvolta
luminosi
filo breve è questa età.
*
Questa terra cesella tra le mani
il bisogno di un santo, qualcuno
a cui chiedere aiuto o perdono.
Amore di casa è voce
antica e signorina, offre in dono
il fiore inquieto delle dune.
Il gheppio ha nella gola
un cielo di acciaio e amaranto
tragedia e luce
nel fico spolpato dal sole.
Porto questa terra come un grido
un sogno, una croce
*
Adesso fermo, riposa
questo lungo cammino di rovi
chiedimi il letto, la forza delle gambe
lascia che ti levi ogni chiodo
ingoierò io tutto il tuo buio.
Tu, forse,
vali il sacrificio.
Sei, forse, tu
tutta la mia luce
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