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Il manicomio di Ancona nel romanzo di Alessandro Moscè

di Antonietta Gnerre

Alessandro Moscè, Le case dai tetti rossi, Fandango 2022

Qual è la ragione di un romanzo, Le case dai tetti rossi, che tocca temi tanto delicati come la malattia e il dolore della mente? Qual è, soprattutto, la percezione che aveva del manicomio di Ancona? Come l’ha maturata?

«La memoria, in letteratura, è un archetipo, come il dolore. Le case dai tetti rossi esistono in contrasto con un pensiero rasserenante, in un’ombra niente affatto protettiva, né in un sentimento pacificato. Questo romanzo è un incrocio di destini mostrato dentro un linguaggio sintomatico, ferito e lucente, in un luogo di caos, sia nel ricordo dell’io che racconta negli inframezzi, che dei destinatari del libro, vale a dire i personaggi che movimentano uno spazio perimetrato. Non l’hortus conclusus, ma una gabbia, per così dire, un recinto che chiude. Le case dai tetti rossi sono casupole simili alle caserme, ora ristrutturate e riadattate, che per decenni hanno ospitato il manicomio di Ancona. Le vedevo dal balcone della casa di nonno Ernesto e nonna Altera, i genitori di mia madre che abitavano nello stesso rione. L’epilogo del manicomio non ha comportato la fine della “città nella città”, un’entità fino ad allora indipendente. È come se l’istituto psichiatrico avesse continuato per decenni a mantenere una realtà suppletiva, nonostante oggi in quegli stabili ci siano dei poliambulatori e il comando dei carabinieri del nucleo forestale. Il manicomio di via Cristoforo Colombo ha ancora una forma visibile nella quantità di alberi, piante e fiori che il giardiniere, un uomo sensibile e dai modi aggraziati, ha curato al pari dell’animo umano, quasi che esseri umani e vegetali mantenessero la stessa natura, la stessa primitività. Il giardiniere è davvero esistito, ma nella narrazione è un protagonista trasfigurato, come il primario, il professor Lazzari, un pioniere dei cambiamenti, e la caposala, una suora dal temperamento sanguigno. Qualcuno, nel Duemila, riferisce ancora dei pazienti con i camicioni lunghi e larghi nelle braccia che all’occorrenza servivano da camicie di forza. Si aggrappavano alle ringhiere e alle sbarre del cancello d’ingresso. Ho voluto immaginare la quotidianità, il taedium vitae dei tetti rossi dopo quarant’anni. Quando ero bambino i nonni avviavano dialoghi concitati sui ricoverati di via Colombo. Nonna Altera cucinava le pappardelle con il baccalà. Versava un bicchiere di vino bianco e la conserva per la bollitura a fuoco lento. A parte cuoceva la pasta. Interpellava nonno Ernesto, che conosceva il giardiniere, sullo stato di salute dei matti. La nonna pregava e il nonno scuoteva la testa intristito».

Che cosa suscita la malattia mentale per uno scrittore? Contiene anche un elemento di fascino? Come si riconoscono i disturbi della personalità e come restituirli esattamente nella pagina? È vero che anche i cosiddetti normali venivano ricoverati?

«La malattia mentale ha il suo fascino, che non è mai sinistro, ma rivelatorio di ciò che molto spesso, in passato, non si capiva e non si curava, non si prevedeva e non si leniva. Almeno negli anni Cinquanta e Sessanta era così per molti malati gravi affetti da psicosi e depressioni maggiori. Il romanzo ha avuto una lunga gestazione. Mettere al presente quegli uomini e quelle donne come occupassero di nuovo il manicomio non è stato facile, perché non è facile classificare i sintomi psichiatrici e i suoi riflessi, le vicende, i comportamenti, i singoli gesti. Ho dovuto fare degli approfondimenti avvalendomi di consulenze con specialisti della materia e della lettura di cartelle cliniche dell’epoca. L’argomento non mi era estraneo avendo letto tutto Mario Tobino e più volte Le antiche scale e Le libere donne di Magliano. Anche la visione di film rimasti nella storia del cinema mi ha aiutato a ricostruire ambienti interni ed esterni. Penso in particolare a Qualcuno volò sul nido del cuculo, A beautiful mind, Un angelo alla mia tavola, Ragazze interrotte. C’è dell’altro. In manicomio ci finivano i barboni, i malnutriti, gli ubriaconi, chi era tornato dalla guerra frastornato, con una pallottola conficcata da qualche parte, chi non riusciva ad alzarsi dal letto, chi era nato straccu, stanco, chi aveva una deformazione fisica e chi era figlio di genitori strani, spostati, con il diavolo in corpo, il diaolo. Ci finivano anche gli epilettici che cadevano a terra. Si pensava che le convulsioni fossero una malattia mentale ereditata, che il malocchio avesse consumato il cuore del paziente, non solo il cervello. La chiusura dei manicomi ha ridato dignità a chi non doveva essere rinchiuso. Nonno Ernesto riferiva che si usavano metodi tutt’altro che ortodossi e che non sarebbe mai guarito nessuno. Si diceva che gli aggressivi e gli incontrollabili venivano chiusi nelle stanze con un materasso a terra, senza molle, nudi, con una coperta sulle spalle, quando i loro lamenti diventavano ululati e non c’era modo di farli zittire. Orinavano e defecavano a terra. La legge Basaglia del 1978 ha abbattuto muri e segregazione, istituzionalizzato la salute mentale, non la malattia. Nel romanzo le discussioni tra i medici sulla legge che stava per entrare in vigore è una parte importante. Un critico ha definito Le case dai tetti rossi un libro dalla cornice sociologica: è una considerazione esatta, se pensiamo alla vera e propria rivoluzione civile provocata da Franco Basaglia, il fondatore della psichiatria moderna terapeutica e riabilitativa».

I personaggi sono la luce e il buio del romanzo e si delineano in modo crescente sin dal primo capitolo. Ci descrive alcuni di loro?

«Menziono i tre personaggi ai quali mi sono affezionato di più. Sono i miei figli di carta, angelicati, docilmente infantili, quasi appartenessero ad un’idea metamorfica del mondo. A loro modo evadono dal sepolcro del manicomio per riappropriarsi di un registro autentico in un’illusionistica, epifanica recita. Sono personaggi omerici all’incontrario e divampano miracolosamente. Franca aveva paura che tornassero i nazisti e di essere deportata in Germania. Di notte si chiudeva nella sua stanza e sentiva il passo inconfondibile dei soldati in uniforme, con gli stivali. Disegnava le svastiche e le cancellava con un’ossessività ripetitiva. Vedeva i nazisti camuffati e si sentiva spiata dagli altri ospiti, dal personale medico e dalle infermiere. Riuscì a superare le sue allucinazioni e a smettere di farneticare. Adele, da ragazza, aveva intravisto il duce a Fabriano mentre era di passaggio per andare al Furlo. È testimoniato che si recasse dal podestà repubblichino della città la cui moglie fu l’amante, una delle tante. Adele voleva diventare una soubrette e il ricordo dolceamaro di quel tempo la persuade, come aspettasse ancora una raccomandazione del dittatore per entrare nel mondo del cabaret. Nazzareno lo conoscevano tutti. Era l’omino del padiglione degli innocui. Aveva un portamento da clown, un’incredibile mimica facciale e la risata contagiosa. Fumava in continuazione e diceva di essere un uomo speciale. Infermiere a ore, aveva lavorato, si era dato da fare. In città si era sparsa la voce che portasse fortuna, per cui lo invitavano ai matrimoni, ai battesimi, ai compleanni. Nazzareno, l’amuleto vivente, indossava un cappello bianco con la visiera, buono per tutte le stagioni, la camicia a scacchi e i pantaloni di velluto bruciacchiati dalla cenere delle sigarette. Amava i clown, dopo aver visto al cinema il film omonimo di Federico Fellini. Sperava di entrare in un circo e di fare qualche spettacolo con i palloncini. Raccontava barzellette e ballava valzer, polche e mazurche. Dopo la cena delle sei del pomeriggio, andava in bagno e nell’infermeria. Usciva vestito di tutto punto, con il camice verde a maniche larghe. Imboccava i malati, coricava gli infermi, si prodigava fino a notte fonda. E quando qualcuno smaniava, Nazzareno attraversava le stanze come un monaco, si sistemava in una sedia impagliata ai piedi del letto e cercava di rassicurare l’insonne. Dopo la seconda o la terza barzelletta, la notte sopraggiungeva anche per gli ultimi angosciati. Chiedeva, a suo modo, dove si nascondesse Dio. L’aldilà, per Nazzareno, si manifestava. Bastava un cenno. Se avesse buttato la cicca dentro il pozzo, qualcosa di inatteso si sarebbe risvegliato all’improvviso. Su una panchina di pietra del chiostro del manicomio aspettava con le orecchie tese».

Ma lo scrittore Alessandro Moscè come entra in scena in questo luogo di conflitti e raccoglimento?

«Alessandro, l’io narrante, torna ai tetti rossi da adulto, ma c’è sin dalle prime battute, da quando cioè, una volta deceduti i nonni, la casa viene venduta ad una coppia di giovani sposi. “Mi fermo e non trovo più un conforto, ma il decadere da una dimensione che non mi appartiene”. Sono queste le parole con le quali si chiude il libro. Mi trovo in un punto limite, incancellabile, tra l’adesso e l’infanzia, con la malinconia che corre lungo i muri del manicomio e di Ancona, in un posto remoto dove nonna Altera e nonno Ernesto camminano sottobraccio. Non svelo il finale, naturalmente. Affiora una moltitudine di ricordi. Gli inframezzi sono blocchi del racconto in cui scrivo in prima persona. Con Luca, il figlio del giardiniere, ero entrato nel manicomio per giocare a pallone. Vincemmo ogni resistenza e andammo a sfidarli. Non credevo ai miei occhi. Ci contrapponevamo ai matti, a casa loro. Nonostante corressero come forsennati, ce la battevamo. La voglia di abbandonarsi al gioco e di toccare la palla per fare un goal prendeva il sopravvento. I manicomiati si presentarono in canottiera e per ripararsi la testa dal sole si erano annodati un fazzoletto. Quei matti erano normali, giocavano come gli altri. Erano solo più alti, avevano un fisico poderoso. Non era facile star dietro al loro ritmo. La partita fu il primo assaggio di un testa a testa con i grandi, specie quando mi arrivò un cross dalla destra e impattai di testa il pallone che finì sul palo alla destra del portiere. Mi applaudirono. E poi menziono il primo giorno di scuola. Il mio banco e quello di Luca erano attaccati. Luca aveva i capelli biondissimi, il viso abbronzato. Indossavamo tutti il grembiule dello stesso colore, una griffe per eliminare le differenze, così come imponeva il regolamento della scuola».

Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro 2005), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali 2008), Hotel della notte (Aragno 2013, Premio San Tommaso D’Aquino) e La vestaglia del padre (Aragno 2019). È presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Venezuela, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha dato alle stampe il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano 2012), L’età bianca (Avagliano 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville 2018, finalista al Premio Flaiano) e Le case dai tetti rossi (Fandango 2022). Si occupa di critica letteraria su vari giornali, tra cui il quotidiano “Il Foglio”. Ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva” e dirige il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”. Il suo sito personale è www.alessandromosce.com.

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