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Il canto dell’Aquila è per chi sa ascoltare

di Francesca Delvecchio

Roberto Biondi, Il canto dell’Aquila, versi e melodie del post sisma, Capire edizioni 2019

Vita personale e atmosfera della città. Ironia, schiettezza e loquacità. Il canto dell’Aquila di Roberto Biondi è un piccolo mondo in cui entrare e l’autore dà il benvenuto al lettore senza troppi convenevoli, bensì facendogli capire subito una verità ineffabile: la vita è dura. A prescindere. Poi ci si mette pure il terremoto. Sì, questa raccolta di versi e melodie del post sisma è uscita in occasione dei dieci anni dal terremoto che ha sconvolto la sua città, L’Aquila, nel 2009, ma a dispetto di quel che potrebbe sembrare, protagonista della raccolta non è il cataclisma. No, quello è certamente una tragedia, ma il canto de L’Aquila non è fatto di lamentele o piagnistei su ciò che è accaduto. È piuttosto la celebrazione di quel che rimane ed è rimasto, nonostante tutto. Ma è anche un monito a essere migliori, almeno provarci e a guardare la vita per quella che è: un istante che “balla” sul tremolio di una faglia.

Dopo un evento catastrofico, potrebbe risultare “normale” celebrare il bene che rimane. Forse però sarebbe troppo facile e non fa per Biondi. La realtà rimane nuda e cruda e bisogna affrontarla. L’autore lo fa con l’arma affilata dell’ironia. Quella schietta che “non te la manda a dire”. Quella anche che rovescia la realtà e la trasfigura in personaggi archetipici e immagini paradigmatiche che si pongono come simboli di verità. Ne sono esempio la storia de “Lo sfollato di campagna e lo sfollato di città”, componimento in sei parti che apre il libro, in cui si scopre come, nonostante la differenza di status sociale dei due personaggi, il cataclisma abbia colpito entrambi allo stesso modo, lasciandoli senza casa e per di più dando al contadino, che per antonomasia è più povero, il compito di tirar su di morale il ricco, che pur avendo tutto non riesce ad esserne felice. Oppure la favola de “Il bruco e la farfalla”, in cui, come è presumibile immaginare, la seconda non vuole parlare con il bruco, definendolo una “brutta larva”. Eppure si sa la vita di una farfalla è molto breve e il bruco alla fine ha la meglio sia a parole che a fatti.

Nel suo teatro Plauto, attore e commediografo latino vissuto nel III secolo a.C., utilizzava il cosiddetto “ribaltamento carnevalesco”, ovvero il ribaltamento delle parti. A Roma, lo spettacolo teatrale era protagonista durante molte festività. I Saturnalia, che si tenevano a dicembre, non erano scenici, ma divennero molto importanti per il teatro romano e quello di Plauto, perché in quei giorni di festa spariva la divisione tra liberi e schiavi e c’era un vero e proprio ribaltamento dei ruoli. Lo schiavo, cioè, poteva sedere alla tavola del padrone, da pari. Oppure gli schiavi diventavano senatori, consoli, magistrati in un’immaginaria res publica domestica. Plauto fece propria questa fantastica, effimera rottura dell’ordine prestabilito, che coincideva con i ludi e la portò nel suo teatro.

In maniera non dissimile, Biondi adotta questo meccanismo e lo trasfigura. Quel suo dire così diretto, incastrato in una rigorosa ricerca dell’endecasillabo e della rima alternata – molto utilizzata nel libro è la sestina, con quattro versi endecasillabi a rima alternata e due versi finali a rima baciata –, ma anche arricchito da molte frasi in dialetto aquilano che portano il lettore nella vera atmosfera territoriale, nasce da un bisogno di verità.

Biondi fa riflettere su ciò che non va. Gli dà rilevanza, ma la tecnica appunto è quella del rovesciamento. Le cose importanti sono altre, non quelle che sembrano esserlo. Mette l’accento sulla storia di Prosperino, il cane che viene messo in canile perché senza padrone e subito tutti si mobilitano per protestare. Alla fine Prosperino viene liberato, eppure nessuno protesta per far uscire i vecchietti dall’Rsa: vi indignate per ‘sta cosa “immonda” / e non vedete il mal che vi circonda è l’accusa. Parla della cattura del cane, ma il messaggio che vuole mandare riguarda un tema più umano.

In questo libro ci sono poesie ludiche, non convenzionali. Col riso l’autore dice in faccia a tutti quello che gli dà noia e lo infastidisce. Come biasimarlo. In fondo non ha fatto la stessa cosa Dante? Certo, in altri termini e diverse tematiche, ma anche Dante ha classificato i peccatori e gli ha assegnato il posto in cui stare dopo la morte. Ma come per Biondi, nemmeno Dante l’ha fatto per divertimento, piuttosto come ammonimento.

Per questo caro amico ti saluto / con questa rima che t’avrà lasciato / indifferente o forse un po’ più arguto / sui mali tuoi commessi, non prostrato. / Ti lascio con speranza e una prece: / «tu cerca d’esser uomo d’altra specie!» scrive l’autore al termine dell’“Ode al social web omnisapiente”. Un’ode che partendo da Omero (Cantami o Diva non aver pudore / di visitare me per questa rima) e passando, appunto per Dante (Perché così va in questo servo ostello / ostello di dolore, in questo Stato / ognuno a giudicare questo e quello / ognuno ad indicare ai rei il reato), si parla di quelle persone che su Facebook o sui social giudicano dispregiativamente qualsiasi cosa o persona, senza averne il diritto o men che meno la qualifica. Nel gergo di internet, sono chiamati “leoni da tastiera”. Dopo l’invettiva, Biondi crede sarebbe meglio adottare un atteggiamento più umile, perché la vita può essere peggiore di così: Siam tutti poveracci sulla Terra / guardiamo sempre dentro l’occhio altrui / smettiamo l’un con l’altro a farci guerra. / Ci pensano già i giorni ad esser bui / e sembra spenta intorno ogni altra face / per questo impegniamoci alla pace.

Ci pensano già i giorni ad esser bui: spesso non si trova una spiegazione logica a quel che succede e l’unico modo per esorcizzarlo è prenderlo col sorriso. Plauto prese i ludi saturnali come esempio e scusa per dire che in fondo gli uomini sono tutti uguali e il servo comanda e si diverte nel farlo.

Biondi prende il terremoto, che non ha niente di ludico (anzi i versi che gli dedica si ispirano a Ungaretti: Si sta come sotterra / le faglie / riattivate. / Si sta come dei rospi / per strada / alle sassate), come occasione per riflettere, come punto da cui ripartire per ragionare e accorgersi che forse ci si arrabbia e focalizza su cose minori, che non meritano il tempo, mentre le altre, quelle più importanti, non si vedono. Ma quello che lui chiede è anche un risveglio per ricostruire e sistemare L’Aquila, la bella città nostra scalcinata. Una città che sorge su zona rossa (termine che in questo tempo di pandemia, fa ancora più riflettere), che si è dovuta adattare con Map (Modulo abitativo ad uso provvisorio) e C.a.s.e. (Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili). Ma anche una città dei santi che la proteggono o che dovrebbero farlo. Una città in cui nel post sisma il tempo è passato ineludibile e si sono visti gli Europei e i mondiali di calcio, fino alle elezioni del nuovo Sindaco, con la speranza che tutto si sistemasse.

E proprio su questi temi è il testo che, ripercorrendo S'i' fosse foco, arderei 'l mondo di Cecco Angiolieri, esprime forse il fulcro di tutto il libro.

S’i fossi sindaco
(sonetto al ballottaggio)

S’i fossi sindaco farei di tutto,
s’i fossi giusto, io mi attiverei
nel far pagare i loro torti ai rei,
s’i fossi Dio m’incazzerei di brutto.
S’i fossi Giorgio darei anzitutto
un po’ di speme ajji quatrani miei,
s’i fossi Massimo mi impegnerei
ad aggiustare ciò ch’è distrutto.
S’i fossi L’Aquila, (città allo sbando)
ch’è moglie, madre e figlia devastata
fors’io – mo basta! – inizierei, urlando
a dire a tutti che mi son stufata:
e in cinque anni – quant’è vvéro Cristo –
ricostruitemi, sennò vi pisto![1]

 

Roberto Biondi ripercorre la poesia italiana, ispirazione di tutto. (Non può mancare di certo Leopardi e c’è un testo che s’intitola Canto notturno di una restauratrice errante dell’Aquila, ma vengono citati anche Guido Cavalcanti, Gabriele D’annunzio e tanti altri). La adatta alla sua voce, al suo ritmo. La fa sua e con rime e qualche alterco alla fine lascia il suo dono: il canto dell’Aquila.

[1] San Massimo è il principale patrono de L’Aquila. – “sennò vi pisto”: pistare in dialetto equivale a pestare, picchiare.

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