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“Rinascere da vecchi” di Gianfranco Lauretano

di Gaia Boni

Gianfranco Lauretano, Rinascere da vecchi, Puntoacapo, 2017

Da principio, leggendo anche solo il titolo del libro Rinascere da vecchi, ho pensato che probabilmente non l’avrei davvero compreso, che mi mancavano ancora gli anni, mi mancava il tempo non ancora trascorso, tempo che invece scorre fluentemente nei versi di Gianfranco Lauretano.
Seppur il libro sia diviso in capitoli differenti e in diverse tempistiche, è attraversato in tutta la sua interezza dall’amore, l’amore per le età, in special modo troviamo un inno quasi costante alla giovinezza, “unico ritratto/ sola chance di non morire”.
C’è la voglia di riprendere un’epoca forse un po’ trascurata, come dice l’autore nei suoi versi, d’essere guardati dalla giovinezza che concede quel luminoso tentativo d’amore e che nel momento in cui trascorre oltre, ci si ritrova a voltarsi indietro, a cercarlo ancora comprendendo che lei sta già guardando altrove. Ci si rinomina Orfeo con la tentazione incessante di girare la testa, consapevoli che non si può riportare in superficie un passato vivente.

Eppure è proprio in questo incedere continuo, nel camminare – di notte – a lungo tra i suoi versi che si vede un’età che non muore mai, che non smette il proprio sguardo sulla vita, come se il tempo trascorresse ma l’età rimanesse esatta e puntuale in ogni attimo.
La giovinezza c’è sempre, così come sempre si trova la vecchiaia, e allora si potrebbe pensare al momento in cui Tolstoj, in Anna Karenina, inizia a descrivere l’amore di Levin per Kitty: «Scese, evitando di guardarla a lungo, come si fa col sole, ma vedeva lei, come si vede il sole, anche senza guardare». E l’età giovanile, come l’amore per Levin, si trascina in tutti i versi di Lauretano anche se non è espressa, mi azzardo a dire, anche se non pensata nel momento della stesura della poesia. Lei c’era.

Nel “Diario russo” si va incontro alla passione malinconica e magnifica di Lauretano per la sua altra patria, la Russia. Tra ponti e lampioni, si legge il desiderio di non perdere una goccia di quelle ore cirilliche, in compagnia di una guida, della propria coscienza, della propria anima che s’incendia al ricordo delle giornate di Mosca, e successivamente a un tentativo di non dimenticare – ma è davvero possibile dimenticare? – quei sentieri della mente attraversati con tanta luce nello sguardo.
Questo amore per una terra e tutto ciò che la riveste, rimane misterioso e puro, seppure nelle suppliche, seppure nei sogni, ed è proprio questo l’amore che Lauretano sembra voler conservare in eterno, perché permeato di un velo di mistero che difficilmente si può svelare, e allora, se come lui per primo scrive: “È sempre del mistero che ci innamoriamo/ perché l’amore è l’attimo/ che dura così poco/ in cui il mistero si dissolve”, la sua Russia amata, rimarrà amata sempre.

Leggendo poesia dopo poesia, ci si scontra con il fattore tempo che Lauretano rende fisico, che rivuole, richiede, rigira e fa riaccadere, perché ci sono luoghi, come l’anima, dove il tempo è nostro alleato: “Vorrai che lui succeda/ ancora una volta lì davanti/ che accada nella tua durata/ nel corpo e dentro l’anima/ il luogo preferito dell’incontro”.
Si incontra poi un’altra consapevolezza, forse la più dolorosa e difficile da ammettere a noi stessi: la solitudine che vive aderente a noi. Ma è anche nella solitudine che il lettore si sente invece più vicino a Gianfranco Lauretano, nei versi quotidiani di autogrill, di mancanze, percepiamo la verità semplice della vita. Quella punta di rammarico che anche quando: “aderirò con l’anima al tuo corpo/ un ultimo segreto resterà, una notte/ che non passa. È la notte fra noi/ noi tutti”.
Versi che portano allora a pensare che, seppur soli, viviamo attimi perfetti d’amore, anche solo con noi stessi, a ricordarci quindi che soli, non lo siamo davvero mai.

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