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La morte di non averti

di Isabella Serra

Succede a volte di leggere un libro in un momento del tempo in cui sembra ci sia concesso qualcosa di simile a un’illuminazione, una consolazione o un’apertura. Così a termine della lettura di Noilritmo (lasciate che io lo scriva così), Taccuino di un poeta per la danza (e per una danzatrice) di Davide Rondoni, penso: cos’hai da dirmi tu, danza? Sei venuta a insegnarmi o a soccorrermi?

La mia voce un po’ sopita e balbettante, scontrosa eppur priva di difese, vorrebbe tendersi alla misura del cigno che sta per innalzarsi e poi morire sul palcoscenico azzurro, per potere similmente danzare, parola e danza uniti in un passo, breve o lungo, ma che sia in sintonia rispetto alle irruzioni che il poeta di questo libro, così vorticosamente innamorato, ci regala. In sintonia, perché inseguire la danza porta a perdersi, letteralmente a scomparire, invece sarebbe bello seguire un ritmo, il ritmo appunto. Dove mai ti nascondi, parola dai capelli arruffati, buttata in un angolo a piangere, scaraventata dalla luce del cigno, sei tu che puoi permettergli di piroettare e alzare le braccia al cielo se solo lo guardassi!

Vedete, tutto quello che contiene questo libro, se preso sul serio, com-preso si trasforma in atto ricreante a sua volta. Faccio qualche esempio: “Una danza non è che il sogno di un poeta preso sul serio”, così recitano le prime parole del libro, parole di Théophile Gautier, il letterato francese a cui Baudelaire dedica i Fiori del male. Perché si arriva a scrivere questo? Perché chi ha fatto esperienza della danza, del cambiamento di energia che avviene nel proprio corpo attraverso la danza eseguita o osservata e bramata, apre i canali a ciò che la parola cerca: un corpo che brucia. La parola che vuole farsi carne. Oh imago che vuole unirsi all’estasi della ballerina o alla luna in levare all’apparire di Salomè! Come nella bella poesia di Federico Garcia Lorca, che non a caso viene citata e ricitata, quasi a volerne fare uscire l’essenza che i due poeti, Lorca e Rondoni, intravedono e alla quale si inchinano:

Salomè era il tramonto.
Un tramonto di occhi
e labbra.

La luna è il perpetuo
tramonto.
Sera
continua
e delirante.

[…]
A mezzogiorno
o nella notte buia,
se parlate di Salomè,
spunterà la luna.

“Perché senza la tua grazia non posso più vivere. E non mi rispondi…
Così la più grande esaltazione e la più forte umiliazione stanno raggiungendo
la medesima altezza, quella di un cuore imprendibile”.

Il ritmo di Davide Rondoni è turbinoso, teso all’inverosimile ma soprattutto denso e gustoso poiché non lascia indietro nulla rispetto alle possibilità che si possono aprire se si partecipa all’atto della danza (danzatorio) e della poesia. Traggono forma dallo studio, dall’esperienza e dall’intuizione, riflessioni che a mio avviso chiamano a vita certe materie morte. Come un nome per esempio. Il nome di qualcuno a volte non basta pronunciarlo o saperlo. C’è un passaggio in cui il poeta va a vedere a teatro la sua danzatrice e mormora incessantemente il suo nome mentre è seduto tra le fila degli astanti. A un certo momento lo pronuncia un poco più forte quel nome, tanto da stizzire una signora con un’orrenda pelliccia azzurrognola («chissà dove le comprano certe cosucce e soprattutto perché») e contempla: «Ma anche quell’apparizione fu trascinata nell’abisso della serata dominata dal tuo NOME (maiuscolo mio)». O altre materie morte, come la verità, quando scrive che molti coreografi hanno preso e prendono corpi di danzatori e provano a reinventarne le possibilità. Cercano e cercano e vogliono che la verità sia ricavabile grazie alla genialità del loro pensiero. Invece Rondoni non aggiunge altro rispetto a un’altra possibile speculazione su cosa sia la verità: «Vederti ballare mi ha inchiodato dentro la consapevolezza di una strana fede. Io lo so che la verità è data, non la si possiede mai». Non prende forse vita così la verità?

Prima di andare fuori tema, dacché poesia e danza sono il tema, io, incapace di tenere il ritmo fino in fondo, voglio comunque ancora dire di questa irrorante intuizione che ha dato forma a questo taccuino poetico, perché non c’è cosa più dolce che vedere lo sposalizio di due fiamme gemelle, così esperienzialmente diverse e così affini, entrambe generate da una stessa fonte. La poesia e la danza hanno in sé lo stesso “dittare”, scrive Rondoni: il dito fissato dal derviscio che vortica e il Dictator, la dettatura; il piede, quel che si posa nel passo e nel verso; la lotta con il corpo e la lotta con le parole; lo squilibrio, il caos che si getta nel cosmos.

E poi le lettere tutte disseminate tra una pagina e l’altra, queste struggenti lettere, questi inseguimenti, verità o finzione che sia, alla Sapiente, alla danza, alla ballerina, a colei che ha tramutato in oro il movimento rondoniano e viceversa. Poeta e danzatrice, creature fatte di uno stesso ritmo che ridonda e si rimanda.

Il taccuino parla di una ballerina e parla della trinità di Rublёv, parla dei livelli di scrittura distinti dagli antichi, parla delle avanguardie, parla di Nietzsche e di Van Gogh, di coreografi, di greci, di icone, di Skrjabin, di slogature, di bambini in carrozzella, di twist, di rap, eccetera, eccetera, eccetera, ma senza mai venir meno a un ballo: quello della poesia e della danza. Chiaramente, più è potente lo schianto più prolifera è la generazione che segue.

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