di Massimo Morasso
Sulla “Generazione 60”, in margine a Poeti italiani nati negli anni ’60 a cura di Francesco Napoli, Interno Poesia, 2024
Fra il 1995 e il 1996 organizzai una serie di incontri con la (allora) nuova poesia italiana. Coinvolsi Mario Benedetti, Vitaniello Bonito, Stefano Dal Bianco, Roberto Deidier, Alba Donati, Andrea Gibellini, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Davide Rondoni, Maria Luisa Vezzali, Gian Mario Villalta ed Edoardo Zuccato, oltre a Franco Buffoni, Roberto Galaverni e Stefano Verdino, che chiamai a dire la loro sul versante critico della questione. Con Andrea Valcalda e gli altri amici dell’ormai defunta Società Letteraria Rapallo decidemmo di intitolare l’iniziativa Una difficile bellezza e di realizzarla in quel di Santa Margherita Ligure – cittadina natale, per chi non lo sapesse, di Camillo Sbarbaro, poeta sommo, fra i più notevoli del ‘900. Avrebbero dovuto raggiungerci nel Tigullio anche Antonella Anedda e Antonio Riccardi, ma per qualche ragione, che ora proprio non ricordo, non furono dei nostri.
Questa piccola, personale riesumazione geo-nominalistica serve per introdurre a due evidenze di fatto: la prima è quella dell’esistenza, negli anni ’90, di una generazione “nuova”, successiva a quella dei nati nel dopoguerra o nei primi anni ’50 (Conte Cucchi De Angelis Mussapi Pontiggia et alii) che ancora s’incontrava volentieri in agorà, pur di nobile provincia, per discutere sul proprio e altrui da farsi; mentre la seconda, deducibile con il senno di poi, riguarda il fatto che fra i poeti bravi nati negli anni ’60 c’erano già sia la capacità di riconoscersi (magari di “fiutarsi” e anche di rifiutarsi, perché no?) sia la consapevolezza di essere generazione.
Uscito quasi trent’anni dopo rispetto a quel volonteroso convivio, Poeti italiani nati negli anni ’60 di Francesco Napoli ha, innanzitutto, il merito di ricordare che tale generazione c’è, ben viva e produttiva. E di farlo non proponendo ai suoi lettori un’ennesima, mera antologia – il tipo d’antologia-catalogo la cui unica, o quasi unica, ragione d’intrigo è l’accertamento sui presenti e gli assenti – ma un articolato studio di taglio storiografico, che gli consente di dar senso a schieramenti, tramiti, percorsi di formazione e militanza. Sono, infatti, i testi introduttivi e i medaglioni premessi alle poesie a dare peso specifico e importanza a questo bel libro-occasione, poiché delineano con chiarezza il contesto letterario e lo sfondo sociopolitico e mediatico entro i quali si sono sviluppate molte fra le migliori buone pratiche odierne del poetico. Chiarisco subito quanto ho appena detto. Intendo, in sostanza, che il libro di Napoli non interessa solo per le sue scelte, esibite nelle appendici antologiche. Lo sappiamo, le predilezioni di gusto sono opinabili sempre. Addirittura quelle di Mengaldo e Contini fanno storcere il naso, qua e là. E se pure qui, nel tomo di Napoli, fra i trenta più o meno sessantenni poeti selezionati, mancano degli autori significativi – e ce ne sono tre, secondo me, che sarebbe meglio che non ci fossero –, la cosa non inficia per niente l’operazione nel suo complesso, perché ciò che davvero importa sono gli effetti dell’encomiabile beau geste di chi quel tomo l’ha scritto: un saggista di vaglia, che si è chinato con paziente, competente attenzione sullo sterminato arcipelago testuale di una generazione che, fino a ora, prima di lui, è stata per larga parte rimossa dalla critica – pur avendo dato varie prove d’eccellenza non solo per virtù dei suoi “capintesta” più abili e marcanti, coloro che sono stati adottati, nel corso dell’ultimo ventennio, dalla cosiddetta editoria maggiore e sono e saranno baciati, anche perciò, dal ritorno di fama del mainstream.
La generazione di chi, come me, è nato negli anni ’60, è la “nuova generazione perduta”, tratteggiata già negli anni ’90 da David Leavitt ed evocata in filigrana, qui da noi, come “generazione mancata” in un bel libro di Villalta del 2005. È una generazione che è passata e/o sta passando perlopiù sottotraccia, occultata com’è fra le pieghe meno esposte del sistema cultural-aziendalista che ha forze economiche e mediatiche e, dunque, luoghi di narrazione, esibizione e comunicazione più che sufficienti per poter supportare a piacimento i propri campioni, ma non l’esercito di chi ambirebbe a esserlo. Alla faccia dei buoni propositi e dei molti mal di pancia di editori e poeti di minor visibilità (ma non per questo solo, certo, di minori qualità).
In Re-visione della poesia, il libro osé che ho pubblicato un paio di mesi fa con Industria & Letteratura, a un certo punto si legge:
I primi autori nuovi del nuovo Millennio appartengono alla generazione degli anni ’60 del secolo scorso. Dovessi impegnarmi anch’io nella scrittura di un’antologia della migliore poesia post-novecentesca, mi verrebbe voglia d’intitolarla A misura d’uomo. Poesia e poeti dei favolosi anni ’60. Gli anni di nascita, cioè, di una generazione di oggi cinquanta-sessantenni che, perlomeno nei suoi campioni poetanti più talentuosi (da Marco Munaro, che è del ’60, appunto, a Francesco Benozzo, Laura Liberale e Riccardo Olivieri, che sono del ’69, passando per un’altra ventina di buoni o molto buoni scriventi venuti al mondo nel decennio compreso fra il ’60 e il ’69), è riuscita a oltrepassare le colonne d’Ercolino del Novecentismo, senza perciò far vela verso le secche del pressapochismo a- o, addirittura, anti-tradizionale.
Queste righe sbarazzine le ho scritte all’incirca quattro anni or sono, non contengono nemmeno uno degli autori individuati da Napoli e testimoniano, se non altro, di una tappa del processo di autocoscienza di uno spasimante della res poetica che si è reso conto di come gli anni ’60 siano stati un giro di boa tra un mondo vecchio e un mondo nuovo – il suo –, i protagonisti meno battaglieri del quale, eccelsi o meno che siano stati o che siano, hanno finito col diventare storiograficamente vecchi fin da giovani. In un suo ottimo libro recente, Gianfranco Lauretano ha scommesso sul fatto che noi, tutti, si possa rinascere da vecchi. Può darsi che la cosa funzioni per dei singoli, naturalmente. Per qualcuno, fra di noi, che sia “nato con la camicia” e venga toccato da qualche mirabile dono tardivo, anche al di là dei suoi cinquant’anni. Ma io credo di non dire nulla di troppo pessimistico, se affermo che è difficile che tale rinascita possa realizzarsi in senso comunitario e generazionale. È un fatto e lo si dichiari: i poeti oggi sessantenni, eccetto quattro o cinque, a quanto vedo, contano poco nella società letterata. Ma, posto che contare, o non contare, conta poco, se è vero che a contare, con il tempo, sarà l’opera – cioè a dire il lascito scritto di ognuno di noi –, è sicuro che quel “contar poco” è anche l’effetto di una loro colpa, che consiste nel non essere stati in grado di costruire una societas generazionale e, di conseguenza, di non essere stati capaci di stringersi “a coorte” e immaginare almeno l’aura del fantasma di una “opera comune”, spalleggiandosi l’un l’altro, come accade in ogni lobby degna di rispetto.
La Generazione 60, come la chiama Napoli, con efficace conio d’appeal giornalistico, è una generazione dispersa, a decisa trazione individualistica, dove solo i più forti e disinvolti fra i più talentuosi sono riusciti a sottrarsi a un destino autoriale di marginalità o franca irrilevanza. Si è parlato anche, per noi Sixtyennials, di una generazione di mezzo, di una generazione sommersa, l’ultima del Novecento, che si sarebbe trovata a scrivere e operare in una sorta di faglia epocale sfortunata, dalla quale sarebbe stato arduo, per molti motivi, trovare un’orizzontalità di rapporto e confronto e sollevarsi all’Empireo della Nuova Dea Visibilità. A mio avviso, si tratta di un’interpretazione storica non sbagliata ma incompleta: non sbagliata, per la verità, più dal lato del “sommersa” (non tutti fra di noi sono dei sommersi: in rari casi, anzi, tutt’altro...) che su quello del “di mezzo”, visto che il mezzo, appunto, fra una cosa e un’altra cosa implicherebbe, per logica dialettica, l’esistenza riconosciuta di quest’“altro”, il secondo termine del discorso insomma. Il quale, in questo caso, sarebbe forse, che ne so, per esempio il collettivo dei poeti post ’68? O quello, più di nicchia, dei sedicenti ricercatori del Gruppo Gamm? O ancora...? Capisco bene che, per un poeta di passo, sia difficile riuscire a pensare che l’essere sommerso e pressoché invisibile non rappresenta un gran problema, oggi per domani. Chi non s’arrabbia per la sottostima di cui si sente vittima manca di carattere, personalità e giusta ambizione. Anche perché, con tutta probabilità, è proprio anche la disposizione passivo-remissiva, dal punto di vista psicologico e intellettuale, di molti fra noi che ci aggiriamo intorno ai dodici lustri di vita (!!!) ad aver favorito la disattenzione (dei nostri “padri”) e l’arroganza novitista (di non pochi “figliocci” o “nipotini”) con cui ci siamo trovati a dover trattare, talvolta anche per sdegnose vie di fuga; spesso, fra l’altro, correlative a sottofondi psichici sottoposti al dominio vampiresco di un torvo, sconcertante solipsismo masochistico... Tuttavia, una volta assodato il deficit caratteriale (per non ingigantirlo col definirlo morale) e autopromozionale dei più, mi sembra più proficuo sottolineare una cosa, irritante, per molti, esattamente per quanto è prevedibile: la poesia dei poeti à la page viene recensita, premiata e – quando, e se, accade – studiata per inerzia, e non (soltanto) per la sua qualità oggettiva. D’altronde, è piuttosto evidente, per chi ha voglia di vedere, come la maggior parte del campionamento pre-storiografico in atto nell’ultimo trentennio o giù di lì sia succube di un principio tautologico per il quale, continuando a parlare e riparlare di qualcuno, si finisce spesso per parlare quasi solo di quel qualcuno, smerciato più e meglio degli altri sul mercato dell’intellighenzia poetica. Sic transit gloria mundi, amplificandosi nell’eco. A tale scialo, talvolta sfacciato e/o imbarazzante, dell’esercizio di entropia in un sistema isolato (in primis riguardo ai versi e alle raccolte dei “maestri” più anziani, com’è d’uso), Poeti italiani nati negli anni ’60 contrappone un sobrio e ben argomentato esercizio di monitoraggio, che ha il pregio di allargare lo sguardo, puntandolo anche al di là dei soliti noti. E questo è un merito grande, che gli va riconosciuto.