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Poesie di Erika Di Felice

Le nuove poesie inedite di una voce potente e vivissima, dal cuore d’Abruzzo. La ricerca di Erika Di Felice prosegue tra ferocia e grazia.

Casa che fermi le fughe
che contieni e trasformi
eccoci, rivoli d'acqua
l’informe la materia di noi.

Casa delle vene e dei marmi
della morbidezza caduta, polvere
raccolta negli angoli acuti
nella carne trafitta di chi si chiama

ascolta la pioggia di un pomeriggio di marzo

sembra la primavera che sale.

Non senza di noi
l’aria diventa
grumo - qualcosa
che ci percorre nelle ore.

Non voglio
sul mio corpo la bellezza
qualcos’altro lotta
per non cedere al disastro.

*

Gli chiedo allora di disfarsi

implodere nella mancanza. Chiama
qualcosa che contiene
il fiato dell’inferno e la scintilla
dell’ultima disfatta –
il mio limite
lo veglio nella notte
gli occhi premuti
sull’ultimo respiro.

In cucina
la fiamma del lumino
trema nella nebbia del bicchiere.
Cerca orizzonti
per non vedere quanto
un niente ci trafigge
dietro le porte.

Settembre ci spingeva contro i muri
sii dolce nel dolore ci graffiava addosso ancora
poi la nuca, la lingua insieme le ginocchia e
il viso indietro per guardare - un’adesione piena anche all’orrore

ma cosa importa se dall’angolo più oscuro della stanza dici
amore, vieni, non è vero (le labbra chiuse sulla punta del mio dito).

Il tuo braccio stretto intorno non sa il buio
e la tua notte ha mille mani per tenermi.

Non mi dire che l’amore è oltre la vetrina
una tovaglia bianca su un tavolo di noce.

L'avevamo sulle dita, è stato tutto

e adesso

non sai più niente del muro che sfarina, nulla
più di fianchi larghi e un corpo senza forma

umana, questa mano che si chiude dopo un dolore.

Le tue spalle
e il mio peso del mondo

solo questo ricordo

questo solo di te

e un taglio
un ritorno
la linea che trema
tra il collo e la sciarpa.

Così sarà la fine pensavo
se ci raggiunge

una notte che non risorge.

Impara di me
come il muro adesso oltre la porta
guarda la mano sul lembo della giacca
e il passo aperto.

Tornare o partire non ha corpo ma
un petto largo
l’intreccio di radici
in un giardino senza mai inverno.

I capelli misurano
un tempo a spirale
basta un passo e il mondo finisce
dimentichiamo
come si piantano semi nei fianchi.
Lascia così la primavera arrivare
a vederci nell'aria
polvere di un legno vecchio
qualcosa da soffiare via.

I giorni sono occhi - noi guardati
passiamo dentro qualcuno

dice custodire
è un lavoro fatto di cura e io
penso a come crescere
le tue piante sulle scale.

So ancora dov’è il pane
mangiato in piedi
a consumare l’atto
necessario alla finzione.

Ma ho paura. Ancora
di dirti che.

Scusa la tazza sporca,
pensa se vuoi che ti ho cercato.

L’acqua
cade sulla ringhiera come sul fiore
esce dalla neve e non sa
che non si ferma chi prega
per la fine. Può
sciogliersi il nome delle cose – le gocce
il vento, gli occhi su un passante
tutto da tenere in piedi ancora,
forse

è stato questo. Essere nati
imparare a camminare.

Con quanti colori il giorno
si separa dal sogno e
lontano nel campo
l’erba sa
come prendere il verde alla luce
ma noi
siamo nati alle soglie del buio
per opporre il petto al boato
della caverna e al canto
della voce sospesa – dice
si può vivere per attesa di morte
oppure
di te che entri
ad occhi aperti nella notte.

Ride Morena
davanti alla morte - a bocca aperta, ride
più forte dei gabbiani e del rumore
della signora della frutta.

Si è spostato il mare oggi
sotto l’ospedale e al mio dito
passato piano sul tuo nome.

*

Camminiamo quasi alla fine per dire
è come l'acqua
ha crepe e spalle dove scorre
qualcosa che ci spoglia e ci conosce
molto più degli occhi che
ci hanno appena.

Il tempo è solo questa attesa
nella neve - due stivali sono un uomo
o un demonio, ma tu ora
voltati e non temere
ti tengo io finché ti reggi.

*

Sulla tua spalla
il cuore sterminato e un vento
che non si chiama,
amore
dell'amore non conosco che il tuo nome.

*

Ti scriverò pensando
alle mattine sul Gran Sasso.
Tu sarai in cammino cauto
nell’erba dura dell’inverno
i tuoi-miei occhi in mille punti
sotto la visiera del cappello
poi più nulla

solo il fruscio dei passi lunghi
e del sorriso tuo nascosto
dietro le foglie della quercia.

Perché se muori
non ti so dire
questo restare
tra me e me-con-te che va
a morire
poco lontano da dov’eri.
Se la morte esiste

sta sulle braccia
una bara bianca – lo sprofondo
di tutti i passi
se è da allora che io muoio
e mi giro e

non so il tuo nome.

Erika Di Felice (1984), architetto e collaboratore ai corsi di Storia dell’Architettura dell’Università di Chieti-Pescara. Ha preso parte agli studi condotti dal Centro nazionale di Studi dannunziani di Pescara sul rapporto tra D’Annunzio e le città. Ha partecipato a vari concorsi nazionali di poesia e nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge Sulle labbra del silenzio (Arsenio Edizioni). Sue poesie sono presenti nella raccolta I racconti di Macondo (Ianieri, 2020), Ventiventuno. Le forme del nostro tempo (Ianieri, 2021) e sulle riviste on line Voce del Verbo, Avamposto Poesia e Super Trumps Club.

2 pensieri su “Poesie di Erika Di Felice

  1. Vera poesia dell’io, che non si rassegna al dolore. Questo il dettato bellissimo interiore. Complimenti!

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