Della memoria e della fioritura. La poesia mineraria di Pietro Cagni

di Daniele Giustolisi

Pietro Cagni, Asbestos, Le farfalle, 2022

The love you lost with her skin so fair

Is free with the wind in her butterscotch hair.

Dream brother, Jeff Buckley

Mettere un qualunque disco nell’autoradio, la notte. Per poi andare. Meglio se con la cassa dritta, in quarti. Il charleston aperto, e il dolore indicibile di un Jeff Buckley o di un Kurt Cobain, a spezzare l’aria ferma di luglio, a seguire dal finestrino i riders che si perdono nelle città deserte, chissà dove, e con quali desideri nel cuore. Sono gli echi di un’America lontana, trapassata, ma che continua a disperdere un’irripetibile estetica di nostalgia, dolcezza e rabbia. È la lingua dell’abbandono, che a un certo punto irrompe, chiedendo il conto.

concedimi ancora
i morsi dell’aria, la trasparenza
come se fosse possibile
il nome
nascosto nella pupilla

La raccolta poetica Asbestos (Le farfalle, 2022) ci dice che Pietro Cagni è tornato, probabilmente sbucando in motorino da piazza Dante, tra una ricerca al Dipartimento di letteratura e un turno in sala prove a rifare il punk-rock su una vecchia batteria. È Catania, ma potrebbe essere ancora una volta bologna o il south bend di sette anni fa che strappa le mani/alla luce. Perché in questo nostro tempo, dove troppo spesso, pericolosamente, si cancellano dalle biografie, con un click, gli esordi, li si oscura, o, peggio ancora, li si rifà, Asbestos continua, limpidamente, e con rigore, il lavoro poetico avviato nel 2015 con Adesso è tornare sempre, perseverando l’alleanza editoriale con gli eredi del compianto poeta-editore Angelo Scandurra.

bellezza che ti spegni
nei silenzi, negli angoli
che scivoli per lo scarico
e capelli, grano bruciato

non farle perdere voce
tienile il petto

[da Adesso è tornare sempre]

Parole nuovamente minime. Anche molly, alberto, sono nomi minuscoli tra le cose che non si ricordano. Ma non si confondono. Perché il nome, quel nome proprio, è già esso stesso segno d’amore, un segnale nascosto, insostituibile, l’unico possibile della storia da cui restare per sempre attratti. Non può esserci un due. Ma occorre dirlo, ripeterlo, scriverlo il nome, il suo poema degli occhi e della luce, perché noi - uomini - siamo questi esseri che parlano, scrivono, che cantano il dolore. E allora possono bastare anche solo nomi propri di donna a fare poesia, come basterebbe, in fondo, dire solo i nomi della vita di un uomo per raccontarne tutta la storia. Lo fa Pietro, coraggiosamente, versificando, in metrica, franca consuelo marisa daniela e tutte le altre presenze femminili del fratello Alberto. Il mistero del nome che esige la misura della forma per mostrarsi.

pietro (ecco la voce)

C’è ancora Alberto che continua a rispondere da via della viola, traversa di via emilia ponente, a un insperato richiamo fraterno; a paola che gli chiede di continuare a vivere, ad aggrapparsi al suo lavoro, togliere vampiri dalla testa dei ragazzini. Si può stare solo così: con una ferita che continua a sanguinare, a farsi però fioritura con la benzina, forza generativa che non cede alla stagnazione del dolore, non lo spreca. Pietro ci indica la sua difficile strada, non nello scatto breve del ricordo, ma nel lavoro della memoria, che funziona per espansione, nel campo lungo dell’esistenza, per appartenenza, bruciatura dell’essere che è (alberto ancora per te, in tua memoria): più aumenta la memoria e più le cose appartengono, ri-appartengono, “ritornano sempre”. Appartiene al futuro la memoria, non al passato.

di nuovo, sempre posso
amare ogni tuo dente, ricomporre
la luce diffusa

chiudere
gli occhi e la testa al tuo fianco

niente sia come vederti arrivare

Forse, a distanza di anni, è proprio la poesia mineraria di Asbestos (da asbesto, ovvero l’amianto), delicata, centellinata fino a un solo verso, attaccata alla terra, stretta tra le cose, i nomi e le azioni, a tradurre in un movimento Adesso è tornare sempre, il titolo bello e misterioso della prima raccolta. È solo l’adesso a definire la condizione di un perpetuo tornare che non sia logoramento, melanconica attesa, presenza fantasmatica che soffoca il futuro; un adesso, appunto, che è destinato a spostarsi sempre più in là, insieme a chi scrive, insieme a chi decide di stare poi dalla parte della vita che continua.

altri nomi, allora, non finire ancora

È questa la torsione possibile di ogni ferita che conta: diventare una fioritura, una traccia ineliminabile in grado di ospitare nuova vita, un nuovo sguardo sul mondo. Il tornare sempre è un ritorno non al medesimo, ma al nuovo. Altri nomi verranno, infatti, altre storie, altre avventure, come la paternità e il suo destino: nell’ombra che sei accompagnarti. È la sezione più luminosa della raccolta di Pietro, in mezzo all’ombra metropolitana e del fondo mortuario della terra. Sono le poesie per la piccola molly.

a quale nascita, a quale silenzio
dai direzione. vesti le pupille
delle tue mani, il volto resta chiuso
sul petto. dentro il fondo vivo del tuo respiro

Margherita-Molly (kiss, kiss Molly’s lips, cantavano i Nirvana) è l’avvenimento a cui agganciare un nuovo tempo, che dà direzione. È proprio questo il lavoro di sintesi compiuto ogni volta dalla memoria, che non toglie, né neutralizza, ma aggiunge, aumenta, tenendo solo ciò che conta. Non è forse un caso che uno dei verbi più presenti nella poetica di Pietro sia il verbo accadere. L’accadimento (ti lasci accadere/non hai paura che a occhi chiusi/gli occhi non ci sono più) non è un fatto, una pura presenza. Ma è ciò che succedendo sospende un ordine precostituito del mondo, riscrivendolo, aumentandolo del suo senso.

increspatura che tu sei. guarda me
nascere ai tuoi occhi. tienimi dentro
al tuo corpo appena nato

Occorre però lo stupore, mantenere uno sguardo-bambino, lo sguardo-molly, per accorgersi degli accadimenti della vita. Farne imperativo: a lei legare gli occhi. È questa la preghiera laica, metropolitana, che spinge, un’altrimenti incomprensibile metafisica (so che sei lontano. Io non so niente), a ricomporsi negli anfratti della city, dove si chiamano lentamente le cose, l’una con l’altra. È il grado zero, minerario, tracciato da Asbestos, titolo desunto dall’artista americano Jean-Michael Basquiat, dai suoi graffiti bambineschi, elementari, dai colori allucinati. Tracce metropolitane nascoste della vita che eccede, tra schianto e ricomposizione.

c’è tutta la città nella tua voce
anche questo si perde, la forma
dei tuoi occhi dove accadi
sei altrove, altrove, al limite del giorno. tu

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