- Nel folto dei sentieri è l’ultima fatica poetica di Umberto Piersanti, uscita di recente per i tipi di Marocs y Marcos. Umberto, leggendo questa tua ultima opera, risulta subito chiaro come Nel folto dei sentieri giunga in maniera coerente a compimento di tutta la tua produzione poetica. Una fedeltà nei confronti della lirica, una limpidezza della parola, che, però, sembra tutt’altro che una scelta di campo ideologica o la ripetizione di uno stile, ma nasce piuttoto dalla necessità di una ricerca umana (e quindi poetica) inesauribile. Dentro le briglie di uno stile ormai maturo e fondato si sente premere la forza prorompente di una domanda ostinata, che si tiene lontana dal rischio del “mestiere” e conferisce a questo libro la potenza vergine di un’opera prima. Dunque, Umberto, da quale esigenza viene fuori questo libro? C’è, ancora, qualcosa di necessario da dire che può essere affidato alla poesia?
Se qualcuno mi chiede “perché scrivo”, rispondo che si scrive per non morire. Scrivere è innanzitutto un atto di vita. Non si scrive per la fama – qualsiasi mediocre cantautore è più famoso di ogni poeta contemporaneo -, si scrive per il bisogno di tracciare un segno, di far uscire da te delle parole affinchè raggiungano gli altri. Questa pulsione è uguale a quella di chi scrive “Lucia ti amo” nei muri di una casa in campagna, o la stessa che ha mosso Dante ne La Commedia, ovviamente con esiti nemmeno paragonabili. Dunque io scrivo perché devo scrivere, per una fedeltà alla mia vocazione. Io sono un poeta “di natura”. Cosa vuol dire “essere di natura”? Tutti i poeti possono nominare un albero per le strade di Milano. Essere un poeta di natura vuol dire che la natura non è mai uno scenario, uno sfondo, ma è qualcosa che si vive in maniera totale, profonda. Nel mio caso c’è un approccio, una congiunzione totale tra vita e scrittura, che non sempre c’è e non è detto che ci debba sempre essere. Per esempio, nel caso di Montale, come racconta la Spaziani, il sambuco entra nella poesia solo per una scelta prosodica, di suono. Invece il mio bisogno di mordere la terra, di controllarla, di vederla, di sentirla, di percepirla è totale, rimanendo però lontano da qualsiasi dimensione ecologica, dunque da un’“ideologia della natura”. Infatti, la mia natura appare anche in tutte le sue crudeltà: l’aquila che stringe il coniglio con gli artigli, il serpente ucciso, l’uccelletto che nei primi giorni di vita cade dall’albero ed è inghiottito dalla serpe, e, allo stesso tempo, la natura osservata nella sua spettacolarità magica e totale. La mia natura è vissuta il più delle volte sotto forma della memoria, la quale le conferisce un tratto mitico e si confonde con la leggenda di un vivere che non va a cercare gli dei – come potrebbe fare un Conte – ma che trova, nelle figure, nei personaggi, nei luoghi, il mito stesso della sua vita e della sua scrittura.
- Come hai appena accennato, un ruolo fondamentale in tutta la tua poetica lo gioca la memoria. E’ sempre stata evidente la “volontà mai smentita di respingere la storia in corso e di vivere una sorta di dopostoria politico” (Alessandro Moscè).
Però, mentre nei libri giovanili, il disagio di essere nella storia sfociava in un conflitto esplicito con la tua generazione (si pensi al ’68), in quest’ultimo libro è come se si affacciasse una sorta di sguardo pietistico e di compassione verso il proprio tempo, dal quale nasce il ricordo nostalgico del “tempo che precede”. Quest’ultimo, rievocato attraverso la memoria, più che un rifugio dall’aggressione della storia, diventa il filtro di lettura per un giudizio più profondo sul presente.
Dunque, che ruolo ha la memoria in questo libro? E quali differenze o corrispondenze rispetto ai tuoi libri precedenti?
La memoria ha un ruolo importante e, in questo libro più che negli altri precedenti;qui c’è un confronto più serrato con il mio tempo, il tempo nuovo. C’è un confronto senza la passione civile e politica dei miei libri giovanili, e senza le rabbie dei miei libri giovanili. Io, uomo sostanzialmente di sinistra, nei miei libri giovanili, a differenza di tanti altri autori (si pensi al marchigiano Gianni D’Elia, o anche a De Signoribus), ho sempre criticato il fanatismo sessantottino e la violenza.
Riguardo il giudizio sul mio tempo, “il tempo nuovo”, posso dirti che io non sono come Pasolini che contrappone l’autenticità di ciò che è passato, che per me ha le sue durezze incredibili, all’inautenticità del presente.
Ti racconto un piccolo anneddoto. Quando ero piccolo i miei genitori mi mandavano in colonia, sia a quella dei comunisti che a quella dei preti, l’importante è che mi davano a mangiare. I miei genitori erano bipartisan. In quella dei preti mi ero preso una cotta per una bambina di Firenze e volevo mangiare vicino a lei, Lucianina. Don Franco, invece, mi aveva messo a mangiare vicino a uno con la faccia tutta butterata. Allora gli dissi: – Don Franco, io voglio mangiare vicino a Lucianina – E lui mi rispose: – nella vita bisogna saper soffrire, così si sarà ricompensati nell’altra vita-. Io, che ero abbastanza laico, controbattevo: – sì, Don Franco, ma lei e gli altri preti mi avete detto che c’è un posto che si chiama inferno. E se si finisce lì dentro non si esce più. Dunque, se avrò la scarogna di finire laggiù, avrò sofferto qui e soffrirò dopo -. Ma quando questo ragazzo è andato via e mi ha salutato dicendomi: – ciao Umberto, non ci vediamo più -, io ho avuto un “tuffo al cuore”. Tutto ciò che perdiamo irrevocabilmente non può che destarci uno struggimento totale. Io canto un mondo che ha visto la mia infanzia e che ora è scomparso, ed è chiaro che la memoria fa un fenomeno particolare: fa svanire il ricordo nel sogno e avviene la trasformazione “mitica”.
Ma il mio tempo è stato anche duro, sono uno che è andato a scuola quando c’era la vaschetta con l’inchiostro, il pennino, la carta assorbente. Ho visto trasformazioni totali. Ci sono cose importanti e belle oggi, e ci sono cose negative come la perdita della memoria storica. Io non voglio contraddire la contemporaneità, anche se alcune cose non mi piacciono, come i mass media banalizzati oltre ogni limite. In questo tempo ci sono, infatti, molti aspetti che stimo, per esempio il rapporto di coppia che, nonostante faccia sempre capolino il rischio del consumismo, rimane comunque più civile e, sostanzialmente, più maturo.
Io sono stato sempre un poeta e un uomo “a latere” rispetto ai tempi in cui sono vissuto, ero l’unico sessantottino che diceva che la dittatura del proletariato non funzionava, che la Cina era molto contraddittoria e c’era il culto della personalità. Era un periodo di confusione enorme e posso dire di essere rimasto sempre abbastanza lucido. Dunque, questo tempo lo guardo senza astio, cercando di capirlo, e guardandolo un po’ “a latere”, come ho sempre fatto.
- E’ sempre stato molto chiaro come la tua “mitografia personale”, la trasformazione degli ambienti e della natura al di fuori del quotidiano sia una mitografia integralmente laica, radicata alla terra, che sembra rifiutare ogni sorta di metafisica. Eppure, l’attitudine lirica imprime comunque nel lettore uno slancio verticale inevitabile (quel fumo / che alla terra non tende / ma sale in cielo), una domanda su Dio e sul dopovita come compimento definitivo di quella pace così spasmodicamente ricercata in ogni verso.
In quest’ultimo libro la tua posizione è piuttosto contraddittoria, ci sono dei momenti in cui questa ricerca sembra inevitabile (che senso ha la vita / per chi nella vita dimora / un solo istante? / la fatica del nascere / a che serve? Oppure: tenace è la memoria / che s’ostina, / tenace a dare un senso / ad ogni cosa) ed altri, invece, in cui sembra affiorare una rinuncia ad ogni ricerca dell’ulteriore a favore di un abbandono nostalgico al tempo passato attraverso la memoria ed il sogno.
Qual è la posizione di Umberto Piersanti, uomo e poeta, nei confronti del sacro e della verticalità? Ha rinunciato definitivamente alla personale ricerca su Dio o rimane, come torre in solitario campo, una domanda che umanamente non si può evitare?
Con il sacro ho avuto sempre un rapporto difficile, spesso conflittuale. Ebbi anche un trauma a causa di un incontro con una persona di Chiesa che – credo – sia stata anche rimossa. Diciamo subito che io sono tenacemente legato alla terra, all’erba, al verde, la mia corporeità è totale: cibo, sesso, natura. Anche la mia natura ha una sacralità pagana. Detto questo, sono uno che prega. Se mi chiedi se sono credente, ti potrei rispondere che nessuno è totalmente credente e nessuno è totalmente non credente. Penso che in ognuno di noi ci sia un gran casino e, – devo ammettere -, razionalmente ho molti dubbi. Penso che ogni religione sia un modo di percepire l’universo, il mondo, i misteri della vita; penso sia un modo di liberarsi dalla paura della morte che ogni civiltà ha in momenti diversi; però la figura di Cristo e il Cristianesimo mi affascina. Nella mia poesia ricorrono tanti Natali e tanti presepi – un po’ più di lontananza dalle Pasque -, per cui posso dirti che non ho rinunciato alla mia personale ricerca di Dio. Dire che ho trovato la fede in senso stretto, benché preghi quando i tempi si fanno duri e mi affidi al Padre eterno, a Gesù e a Maria, è una falsità. Posso dire di essere ancora molto sospeso. Ad ogni modo la mia poesia rimane comunque ancorata ad una dimensione terrestre; il cielo, per quanto non venga sconfessato, rimane quasi celato. C’è un aneddoto dei contadini delle mie terre che mi colpisce molto e che ti dirò in dialetto urbinate: – ma tu ci credi nell’aldilà? –, risposta: – sarà anca vera, mo da ma là è ne mai artornat nesun (“sarà anche vero, ma da là non è mai tornato nessuno”, ndr).
- Come in tutta la tua poesia, anche in questo libro, è centrale il rapporto con la natura per la creazione di questo spazio-tempo ninfeo, alternativo alla cronaca. Particolarmente interessante è il puntiglio di una descrizione- nominazione precisissima, quasi scientemente botanica. Questa attenzione maniacale verso la natura denota, dunque, che nella costruzione del sogno, del mito, non si “inventa” nulla, ma piuttosto si ricostruisce a partire dalla realtà e dalla personale esperienza della realtà, anche nel minimo dettaglio.
Da dove nasce, Umberto, questa attenzione maniacale verso il reale fino all’esigenza di una descrizione così precisa della natura e delle assenze arboree?
E qual è, nella tua opera, il rapporto tra la realtà e la poesia?
“Fiat lux et lux fit”. La parola è un modo di comprendere; nelle Bibbia è un modo di creare la realtà. Io non posso dire solo “quel fiore, con i petali gialli, lunghi, un po’aguzzi…”, devo anche dire: il “favagello”. I favagelli non sono fiori rari, quando arriva febbraio, marzo, le nostre colline ne sono piene, eppure i poeti non li hanno mai visti. Non sembra strano? E’ un fiore bellissimo, molto più splendente e luminoso di una margherita. Nominare le cose, per me, vuol dire conoscerle, entrarci dentro, saperle ed avvicinarle nel loro mistero più profondo, certo non possederle. Nominare vuol dire apparentarmi con le cose, introdurre la mia possibilità di conoscenza e per questo sono così attento alla realtà e alla nominazione.
Sul rapporto con la realtà riprendo quello che dicevo prima riguardo i sambuchi di Montale. Io non potrei mai nominare un fiore che non conosco, come anche una storia d’amore. Posso trasformarla, mitizzarla, portarla all’estremo, farla vivere come innamorati che fuggono sulla luna di una leggenda popolare, ma c’è sempre una base reale. Ho bisogno del reale per scrivere. E’ chiaro che io non intendo il reale in senso neorealista, reale è anche la sfumatura più lieve, il soffio d’aria, il sogno più indistinto, la fantasia più totale. Michael Hamburger diceva: il poeta può parlare delle sfumature di un tulipano, ma se è un vero poeta, parlando delle sfumature di un tulipano,parlerà del mondo. Io intendo il reale nella sua complessità totale e sento il bisogno che le parole e le cose abbiano un loro rapporto, naturalmente non pensando che valgano solo certe cose: politiche, civili, etc. Le parole e le cose sono legate tra di loro in un modo assolutamente non meccanico, ricco, arioso, multiforme.
- Una sezione del libro è introdotta da un tuo commento che parla della genesi delle poesie che seguiranno, e riveli che nascono come canto orale tra le campagne del Furlo.
Puoi approfondire questo aspetto? In che rapporto sta la poesia con l’oralità e con il ritmo?
Io vengo da una civiltà che narrava: il mio bisnonno Amadio mi raccontava dello sprovinglo, il diavolo cane nero che gli entrava nel biroccio, la corsa del biroccio che si fermava, etc. Mio nonno mi intratteneva con questi racconti e per me era come andare a spasso con un amico. Vengo dalla dimensione dell’affabulazione. Non sono un poeta legato solamente a ciò che scorre in interiore homine, per cui il racconto mi appartiene fin dentro le viscere.
Ma la mia scrittura unisce il racconto orale, che ho sempre posseduto fin da bambino, a una lettura dei classici e dei poeti dell’Ottocento-Novecento (Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Leopardi,…) in cui io ho incontrato il ritmo. Io non uso la metrica, lo schema ritmico, in modo post-moderno o citazionistico, ma tento di tradurli in una lingua normale e diretta, accostandomi all’operazione che faceva Leopardi con la lingua di Monti (senza, ovviamente, azzardare nemmeno il minimo paragone con il poeta di Recanati). Io penso che ogni poeta debba possedere un suo ritmo, il mio è quello che appartiene – come scrisse Franco Loi più di una volta – alla grande tradizione italiana. Sono un italiano centrale, lontano dalla prosaicità lombarda, padana, ma lontano anche dal barocco e dall’espressionismo meridionale.
- Il concetto del tempo, che è un tema che percorre tutta la tua produzione poetica, come si è sviluppato dagli esordi fino ad oggi? Qual è il tempo della poesia?
Luzi diceva che per scrivere occorre un po’ discostarsi dalle cose. Il tempo della poesia, se si parla del tempo della scrittura, non è la notte ma il giorno ed è un momento appartato, anche contemplativo. Posso anche scrivere en plein air, oppure uscito da una passeggiata en plein air. Il tempo, invece, in cui colloco gli spazi è “il tempo dell’altrove”. Credo che ogni poeta, in un modo o in un altro, ricerchi un altrove, un altrove che sia un destino. Magari gli impegnati lo trovano nella rivoluzione, – Majakovskij potrà credere all’altrove del mondo socialista, così come Brecht -, ma nella poesia resiste questa indefessa richiesta dell’altrove perché la poesia nasce da qualcosa che trascende il presente, da un’ansia religiosa di eternità. L’altrove è quella natura separata dove il tempo non ha il suo dominio. Il mio altrove è un altrove di quiete in cui io ricordo tutto, ma è anche l’altrove magico, seppure sconvolto da dolori e avvenimenti tragici, che la memoria trasfigura perché depura dagli elementi più duri, più prosaici, più concreti. Nella memoria anche il dolore diventa un’altra cosa.
Questo altrove non ha un valore storico, ha piuttosto un valore ontologico, è una necessità dell’essere.
- Umberto, per concludere, ti chiedo un parere sulla condizione attuale della poesia e sul destino che le spetta nella contemporaneità.
La poesia contemporanea è molto vasta e ricca. Non c’è più qualcuno che ha il bastone del comando e fissa il canone, il recinto. Quello che mi spaventa un po’ è una proliferazione eccessiva e anche il fatto che non ci si capisca più niente, è il fatto che magari poeti giovanissimi vengano immediatamente antologizzati senza attendere pazientemente il giudizio del tempo, della storia. Vedo anche una difficoltà di essere accettati e, allo stesso tempo, la volontà di bruciare le tappe, di esserci comunque.
Ci sono stati anche errori delle grandi case, che spesso hanno fatto delle scelte stralunate e parapoetiche, dettate da interessi sociologici e che hanno portato ad un allontanamento della gente, dei non addetti ai lavori dalla poesia.
Penso però, in definitiva, che ci sia una bella vita della poesia, una vita che si allarga, in cui, certo, mancano i lettori in senso stretto, ma vive un interesse che si sviluppa sotto altre forme: iniziative culturali, letture. C’è una vivacità, una vita sotterranea ma non troppo, esoterica ma non troppo. Penso, inoltre, che la poesia stia molto meglio del romanzo. Il romanzo è afflitto dalle mode, dal dominio spaventoso del genere, è stritolato in un vortice di tirannie da cui la poesia, invece, è totalmente libera. Vedo, dunque, una forte vitalità nella poesia contemporanea. Certo, ai tempi di Leopardi un poeta era un intellettuale a 360 gradi e un cantante era sullo sfondo; oggi, molto spesso, il più piccolo dei cantautori, che è un gigante sull’apparenza, ha un’incidenza sulla società molto maggiore del più grande dei poeti. Ma non è questo che conta. La forza della poesia è anche la sua perseveranza. Credo che anche il tentativo dell’avanguardia degli anni Sessanta-Settanta di dire che c’è solo una direzione sia stato sconfitto, a favore di una ricchezza e di una varietà che non può che fare bene alla poesia e alla sua tensione originaria, mai sconfitta, di “dire” il mondo.