Per Delia, tra i depistaggi e le epifanie della libertà

Alcune domande ad Alberto Fraccacreta sul suo "Sine macula"

di Davide Rondoni

Ho voluto rivolgere alcune domande ad Alberto, poeta e critico che stimo, dopo aver letto il suo libro antilogico con inediti. Un libro intenso e profondo, tra i più consapevoli.

Alberto Fraccacreta, originario di San Severo, è assegnista di ricerca in Letteratura italiana contemporanea presso l'Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Collabora con alcuni quotidiani nazionali.

Davide Rondoni: Fraccacreta, perché la necessità di raccogliere e comporre in un libro (Sine macula. Poesie 2007-2019, Transeuropa) varie raccolte e cose nuove? Un’esigenza editoriale o qualche altra necessità?
Alberto Fraccacreta: Innanzitutto, mi preme ringraziarti affettuosamente per il tuo generoso interesse. Alla fine di questo primo decennio di poesia mi è sembrato urgente dare qualche ritocco — non so se a torto o a ragione — all’assetto generale e particolare dei testi. Mi sono accorto, inoltre, che il percorso aveva bisogno di un ulteriore chiarimento riguardo al Leitmotiv (la tensione a una soggettività sine macula) e riguardo agli attori (la presenza, prima carsica e ora più evidente, di Delia). In ultimo, avevo alcune poesie extravaganti — ma anche stravaganti, probabilmente! — che riempivano il periodo tra Uscire dalle mura e Basso Impero e che si spingevano oltre, senza essere in grado di costituire sillogi autonome. Più di tutto, in realtà, è stata un’esigenza esistenziale: ricalibrare la poesia sulle dinamiche imprevedibili della vita. Dare un senso organico alla frammentarietà e all’estemporaneità delle composizioni per osservare sottotraccia quello che Deleuze ha chiamato il «pensiero rizomatico», ossia un pensiero che si sviluppa secondo connessioni multiple.

D.R.: Dalla raccolta iniziale (Uscire dalle mura, Raffaelli 2012) fino a quelle più recenti (Basso Impero, Raffaelli 2016, dove sta lo splendido poemetto Apocalisse Urbino) alle finali aggiunte su Delia, non pare mutare la grana della tua composizione. Una lingua sorvegliata, sempre un pelo di qua o di là da qualsiasi mimesi del parlato, e poi il gusto della sottigliezza, del desueto o del raro, degli stupefacenti cortocircuiti. Una fedeltà stilistica che non deve costare poco, e che forse è un habitus. Da cosa discende?
A.F.: Discende forse da un’idea di letteratura che si specchia nella complessità e nel brulichio del mondo, «nel corpo oscuro della metamorfosi», come direbbe il nostro carissimo Luzi. Ho in mente i depistaggi strutturali di Thomas Pynchon, le rarità diegetiche di Borges e, per venire a un autore italiano, i nessi infrastorici del Giudici di Salutz. Certo, con loro tutto è diverso, tutto funziona a meraviglia, mentre qui non esattamente... Penso anche che la poesia sia una forma di ricerca (che non deve cadere nella trappola della ricercatezza, benché molti testi in Sine macula ci caschino parecchio, me ne rendo conto): l’immediatezza è una tentazione tanto quanto l’eccesso di zelo. Siamo tutti un po’ oraziani! Bisognerebbe rendere la freschezza nel lavoro patibolare, la perizia tecnica nella tempestività. Una sfida difficile. Proprio Apocalisse Urbino — che ha più di un debito con il tuo Apocalisse amore — è frutto di un labor limae (esagerato!) che mi ha dato, tuttavia, la possibilità di riscrivere ungarettianamente le stesse cose in modo diverso. Il desueto nasconde, poi, forse una valenza politica: Heaney parlava del «governo della lingua», cioè di come il linguaggio possa dare forma alla realtà e allo stesso concetto di libertà. Uscire da un gergo standardizzato e individuare il valore insito nel nominalismo, nella propria langue sono di per sé (piccoli) atti di liberazione.

D.R.: Un libro dove in mezzo a Urbino, a tante figure di autori e di artisti, in mezzo a panorami e cartografie interiori e intellettuali, compare anzi domina se pur con vari profili Delia, la figura femminile, rintracciata anche esplicitamente in una mappa di riferimenti tra canzoni di Dylan e citazioni di pittori. Dici pure che Delia è ovunque, ma dici anche che non è Laura di Petrarca – che ovunque era, ingannevole sogno. Che realtà è Delia? Ne parli in una nota iniziale dove richiami una «relazione edenica». Quindi impossibile?
A.F.: Hai ragione, non è ingannevole sogno. Delia è una relazione. Non ha un viso biografico, non è incarnata in una presenza concreta, benché rappresenti la femminilità, l’Ewig-Weibliche goethiano e sia figura Christi. Si perde un po’ nell’origine del suo nome, à la Maurice Scève (Delie: l’idée). Delia è la grazia che illumina la fede. Più che un contatto con i simboli stilnovistici, con Beatrice e con la generica donna angelicata, Delia — si parva licet — potrebbe assomigliare a Matelda, figura e allegoria dell’umanità prelapsaria. Il dantista Umberto Bosco ha detto che Matelda impersona l’«essere felice qual era l’uomo prima del peccato». In questo senso, Delia si lega al sine macula, è l’adempimento di una promessa certa, e nella sua soggettività l’io lirico tenta di specchiarsi. È la joie segnalata da Paul Claudel nel destino tortuoso di Violaine Vercors de L’annuncio a Maria, testo al quale tu hai scritto una bella postfazione per l’edizione Rizzoli. Vorrei sottolineare anche in tale frangente un significato, per così dire, politico e non soltanto puramente letterario-speculativo: se l’interiorità di ognuno di noi si sforzasse di raggiungere quella francescana «perfetta letizia», quella condizione di assoluta umiltà e confidenza con Dio — che papa Francesco chiama «ecologia integrale» —, molti problemi globali sarebbero risolti.

D.R.: Un libro colto e ricco e esibitorio di riferimenti, citazioni, richiami – quasi il contrario di tanta poesia insta/sentimental del momento. Bisogna essere molto colti per leggere Sine macula (titolo che viene anch’esso come citazione ripresa e riorientata)?
A.F.: I riferimenti e le citazioni accadono talvolta come un riflesso istintivo e rintracciano nella letteratura un barbaglio di vita vissuta, come se fossero una precognizione, una profezia. In questa direzione, mi ha molto influenzato il compianto poeta svizzero Philippe Jaccottet, secondo il quale il richiamo testuale è già in sé una forma di poesia (paradigmatici sono libri come E, tuttavia e Quegli ultimi rumori..., l’uno edito in Italia da Marcos y Marcos, l’altro da Crocetti: vere e proprie sillogi in forma di saggio). Quando qualcuno ha detto qualcosa di bello che tu non sapresti dire altrimenti, va segnalato a beneficio del lettore. La poesia dovrebbe sempre cercare di affermare l’alterità. La citazione nei versi è, dunque, una specie di accoglienza e di riconoscenza nei confronti di chi ci ha preceduto. Come osserva Borges: «Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto, io sono orgoglioso di quelle che ho letto».

D.R.: In questo teatro delle citazioni e dei rimandi si realizza la letteratura? O ne è la trama?
Come sai Luzi – ritratto nel libro con le sue meravigliose «borse/ esclamative» sotto gli occhi “accusava” Montale (si fa per dire, ma quel suo discorso per il Centenario del genovese fu certo un altissimo “regolamento di conti” da parte del fiorentino), ecco lo accusava di cercare rifugio in una certa “artisticità”. Come non correre questo rischio che forse ti perseguita?

A.F.: Sì, è un rischio che mi perseguita ed è una trappola in cui cade gran parte di Sine macula, probabilmente. Grazie per aver ravvisato questo aspetto. Ma l’intento iniziale era di proporre, con l’aiuto dei grandi autori, l’umana tensione a una pienezza esistenziale che non si può realizzare se non con quel ritorno all’«Innocenza Essenziale» indicata da Derek Walcott. Nel tuo ultimo libro, Cos’è la natura? Chiedetelo ai poeti (Fazi), ho trovato tra tanti spunti interessanti questa frase molto bella e molto vera: «Per il poeta autentico, di qualunque tempo e cultura, si tratta di ritornare a un pensiero pre-saputo, nel pre-sciente. Un pensiero-infanzia. Come se si trattasse di tornare per via di continui avanzamenti, acquisti e incrementi a una nuova povertà. A una più luminosa nudità. Vale per Saffo, Dante, Shakespeare e per noi oggi». Paradossalmente, Sine macula insegue quella povertà che tu hai definito benissimo come «pensiero-infanzia» (infanzia non in senso cronologico, immagino, ma ontologico). La via di questa povertà potrebbe essere anche un completo decentramento di sé dai versi e, quindi, un incessante riferimento ad altro, ad Altro (come nel Magnificat risuona l’Antico Testamento) ma senza artisticità!

D.R.: È un libro mariano. La figura della Madonna inaspettatamente occhieggia e ritorna per tutto il libro, dal titolo alle controfigure di Delia. Perché un poeta si interessa a una figura come la Madonna?
A.F.: L’interesse è innanzitutto devozionale. Credo nella presenza di Maria nella mia vita. La certezza di questa presenza mi ha portato a riflettere e a meditare, con discrezione, riguardo al suo intimo quotidiano (come viveva concretamente quand’era l’umile fanciulla nazarena che ricevette l’annuncio dell’angelo?) e sul possibile legame con la poesia. Quando tu parli di «pensiero-infanzia» e della povertà dell’io, stai parlando di un’immacolatezza, di una natura sempre più adeguata, sempre più in adesione. Se tanti poeti e pensatori hanno vagheggiato questa condizione attraverso la presenza femminile (penso anche a Leopardi e a un punto decisivo dello Zibaldone: «Una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare. [...] Quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti»), si può parlare non soltanto di una “letteratura mariologica”, bensì di una “mariologia della letteratura”, cioè di un moto intrinseco al fatto poetico che tende a un’adamantina purezza e al limite del dicibile. Questo aspetto è evidente in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, ma lo stesso Montale della Bufera non sembra lontanissimo.

D.R.: Urbino, città che ti circonda chiude e attraversa. Ma urbinate non sei. Sul rapporto tra poesia e luoghi si dice spesso, ma nella tua riflessione poetica, dove con Jaccottet o Zagajewski sulla scorta del 5% montaliano indagato da uno dei tuoi maestri di letture Andrea Gareffi, si cerca come «esca l’io dalla poesia». E allora che è il luogo per un “io” che deve uscire dalla presunzione poetante? Non rischia di esserne il primo riflesso, la prima conferma?
A.F.: Sono pugliese, e sento ancora, è insradicabile in me la pensée méridienne, la solarità mediterranea di marca camusiana. A Urbino ho trovato, però, una zolla di giardino dell’Eden che ha contribuito in maniera decisiva alla ricerca di una soggettività senza soggetto. Quando Dante saluta per l’ultima volta Beatrice nel XXXI canto del Paradiso, le rivolge una preghiera che si conclude così: «La tua magnificenza in me custodi». Parafrasi: fa’ sì che io, per quanto mi rimane ancora di vivere, mantenga tutti i tuoi doni in me. Ma quali erano stati i doni di Beatrice? Era stato il suo scendere dalla luce dell’Empireo fino al Limbo per incaricare Virgilio di riportare Dante sulla buona strada. Beatrice ha sofferto per la salvezza di Dante, ha lasciato le sue vestige nell’inferno. Ha donato tutta sé stessa per salvare Dante, il suo è amore agapico. Ecco, il poeta — nel quale la presenza di Beatrice è stata come una grazia “travasata”, un inmiarsi — chiede alla sua amata di preservare in lui lei stessa. Custodisci te stessa in me. Non sono più io che parlo ma la tua magnificenza, il tuo donarti senza riserve. E io sono diventato te. Fa’ che io resti per sempre te stessa. È intanto uscito l’io dalla poesia per far spazio al tu, inteso anche come un luogo di pieno rifugio e di amore.

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