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Patriarcato o l’uomo invisibile?

 

di Sarah Tardino

 

Dall’estinzione dell’uomo etico al neopaganesimo

L’uomo non è solo è il titolo della più profonda opera di filosofia della religione del Novecento. L’autore Habram Jesha Heschel è, allo sguardo dolente e disilluso del lettore del nuovo secolo, la sola risposta antinichilista alla grande teologia mancata di Heidegger. Al crollo del pensiero occidentale nella fossa comune della shoah questo libro risponde in maniera sorgiva e, sinfonicamente, nel suo attacco, catapulta il lettore , senza tergiversare, nei temi fondamentali dell’etica. Nell’introduzione Cristina Campo dice di Heschel “il mistico non specula, riferisce” eppure la parola riferita di questo teologo sfida qualunque livello della speculazione teoretica e vince per quella disarmante intelligenza della mistica che risiede sotto la soglia del Cielo. Così egli scrive:

 

Tre aspetti della natura si impongono all'attenzione dell'uomo: la potenza, la bellezza, la grandiosità. La potenza gli serve, la bellezza gli procura gioia, la grandiosità lo riempie di timore. Noi diamo per scontato che lo spirito umano sia sensibile alla bellezza della natura. Allo stesso modo consideriamo disumano un individuo che non si commuova alla visione della terra e del cielo, che non abbia occhi per vedere la grandiosità della natura e che non senta, sia pur vagamente, il sublime.[1]

Quello che in questo testo cattura immediatamente l’attenzione è l’uso di termini ormai quasi scomparsi nel dizionario dei nostri tempi, e immagini desuete, come “avere occhi per vedere”. Heschel dà per scontato che si consideri disumano l’individuo che non ha occhi per vedere la grandiosità della natura. L’incipit della sua opera è giocato sulla potenza dello sguardo e della vista come organo principale della coscienza. Mai vi sono stati tempi, come i nostri, nei quali la potenza della tecnica ci ha messo in grado di osservare ed essere osservati, ricevere immagini e informazioni in maniera vorticosa. I social media ci pongono innanzi a una valanga di immagini. Noi abbiamo la certezza che la nostra immagine, immersa nel fiume della comunicazione come un messaggio in una bottiglia, sia moltiplicabile in maniera frattale. Siamo osservatori del mondo e ne siamo osservati. Con tali strumenti a sua disposizione l’uomo dovrebbe, dunque, percepire più che mai la grandiosità della natura, di cui egli fa parte, la sua presenza nel mondo e nella storia. Eppure accade esattamente il contrario. Il resoconto della disperazione di una gioventù sazia più che mai di beni e di possibilità ci consegna un racconto di totale solitudine. L’iperfetazione incontrollata d’immagini porta infatti l’uomo a una assuefazione al segno visivo che permette, certo, di essere osservatori e osservati, ma osservatori e osservati vuoti: senza visione. Siamo osservatori incapaci di decodificare, secondo categorie etiche, la semantica di un’immagine. Noi osserviamo un’immagine ma non la vediamo perché non ne cogliamo più il senso e il significato profondo. La nostra visione dell’immagine è piatta, di superficie. Nell’orgia infinita di segni discordanti a cui siamo sottoposti continuamente, si verifica, per accumulo, una disordinata sovrapposizione di nessi senza cause e dagli effetti sconnessi: realtà, finzione, odio, amore, violenza, prevaricazione, bellezza, sensualità, erotismo, amore, aggressione: tutto è affastellato come infinite carte nel disordine della nostra coscienza profonda. In questo disordine crediamo che la nostra immagine sia scagliata all’infinito e che la nostra presenza sia anch’essa estendibile oltre la nostra coscienza, fuori dal limite temporale e dalla costanza sia corporea che immaginifica. Ma nel profondo del nostro spirito siamo, in definitiva, consapevoli di non essere visti, perché diventiamo segni senza significato di fondo: cassetti vuoti.

L’immagine che restituiamo di noi, assuefatti dall’overdose della nostra proiezione, non è più percepibile come portatrice di un senso e un significato univoco e oggettivo. Quel qui e ora al quale Duns Scoto dava il nome di hecceitas, concetto sotto il quale si addensa un io che è uno e non un altro, inequivocabile: individuato e autenticato in se stesso. Quello che nasce, invece, dal processo di mediatizzazione dell’io è un io frammentato, da troppi mediatori, che approfondisce, secondo un parossismo metonimico, la crescita di senso di un micro segmento di sé, senza però percepire l’insieme di sé e la sua posizione nel mondo che lo circonda, quel sentimento di grandiosità che genera stupore di cui parla Heschel è il contrario della frammentazione mediatica. Oggi l’uomo volge più che mai uno sguardo alla natura. Non è uno sguardo stupefatto, è uno sguardo preoccupato per le sorti del mondo e, tuttavia, l’uomo non riesce a correggersi, pur osservando continuamente il risultato nefasto dei suoi errori che distruggono la natura.

Sarà allora forse bene, seguendo la parola di Heschel interrogarsi di più sulla natura dello sguardo che l’uomo rivolge verso se stesso e verso il creato. Su ciò che ne è stato della percezione di quella grandiosità che evoca reverenza e timore. L’elemento ultimo del brano citato dalle pagine di Heschel è anch’esso una parola assolutamente scomparsa dalla pubblicità dei nostri giornali e dalla consuetudine dei nostri infiniti mezzi di comunicazione: il sublime. Che fine ha fatto il sublime? E che cos’è? Il sublime è secondo la definizione del dizionario, ho scelto, volutamente, il dizionario online Treccani, una parola che deriva dal latino:

sublimis, composto di sub «sotto» e limen «soglia»: dunque «che giunge fin sotto la soglia più alta», in senso spirituale, intellettuale, estetico: «nobilissimo, eccelso», «la manifestazione del bello e del grande, nel suo più alto grado».[2]

Il sublime, ciò che sta sotto la soglia più alta, secondo Heschel che è un teologo, soglia dei Cieli, è dunque un’accezione somma del vedere la bellezza sotto il limite oltre il quale lo sguardo umano non ha accesso. Nel nostro tempo, tale accezione è ontologicamente decaduta. Ed è decaduta poiché è decaduto il sentimento del limite, ogni sentimento del limite teoreticamente legato alla percezione del sacro. E a che cosa ha lasciato il posto tale decadenza semantica? Al glamour che, sempre secondo il medesimo dizionario online, è un termine scozzese:

alterazione del termine inglese grammar «grammatica», per una “popolare associazione dell’erudizione con le scienze occulte […] – In origine, incantesimo, magia, poi in genere incanto, fascino, malìa che attrae con forza irresistibile, riferito infine più semplicemente al fascino femminile: una donna piena di g., che seduce tutti con il suo glamour. Per estensione, fotografia g., fotografia, normalmente di soggetti femminili, che tende a suggerire un’atmosfera di fascino e sensualità”.[3]

Il sublime, dunque che è una visione della bellezza nel più elevato dei suoi sensi e significati ha ceduto il posto a un incantamento, maliardo, quasi da fattucchiera, che nell’accezione comune, l’accezione comune è humeianamente un concetto tutt’altro che scontato, è declinato sul versante del femminile. Gran parte delle immagini che noi percepiamo dal gigantesco mondo del web sono glamour: l’attrice sul red carpet è glamour, la presentatrice televisiva, persino la donna primo ministro sente l’obbligo di esserlo, in qualche modo; l’abbigliamento delle nobildonne è più o meno glamour e il glamour è espresso in una pioggia di immagini. Il soggetto principale di questa sovrabbondanza di immagini è la donna, il corpo della donna, che rappresenta, volente o nolente, la visione primordiale nella percezione umana della natura, cioè quella della madre per il bambino. Il corpo femminile che è ontologicamente origine del mondo, assume un’immagine che viene declinata quasi esclusivamente in termini di fascino, attrazione e malìa, attirando attorno a sé tutti i sensi di una generica erotizzazione decontestualizzata dal versante stesso dell’eros. E cosa accade a una visione erotica trasportata dal contesto segreto – intimo – della sensualità amorosa a quello assolutamente aperto dei mezzi di comunicazione più potenti che l’uomo abbaia mai avuto?

Essa viene dissacrata: diventa merce.

Il sacro, sia nell’uso dogmatico delle religioni che al di fuori di esse, è ciò che risiede oltre il limite dello sguardo umano; subito dopo la soglia, quello che la visione della grandiosità, come ce la descrive Heschel, contempla, ma non contamina, perché non tocca, quello che il sublime intuisce essere il nucleo incandescente, intangibile, della natura stessa. Ma essendo stato demolito il sublime, quella postazione dalla quale l’uomo può scorgere il sacro nel suo orizzonte, pur rimanendo nel mondo, l’uomo ha perso la sua rampa di lancio per il sacro.  Perso il mezzo di contatto visionario col sacro intangibile e invisibile che è garante del suo limite, l’uomo, ormai solo, ha disperatamente cercato un rimpiazzo all’interno del contesto mondano a lui totalmente dato. Questo sostituto è il glamour che è un codice grammaticale, definitorio, del tutto umano, che l’uomo ha creato e che l’uomo può amministrare senza il bisogno di sentirsi dominato da alcuna trascendenza ordinatrice che lo prescinda. Il glamour rimane a un livello mediano della comprensione, non è uno strumento per avvicinarsi alla soglia-limite del sacro, come il sublime. E tanto il sacro è ciò che non può essere violato tanto il dissacrato, che il glamour descrive, si presta a essere modellato sulle esigenze dell’uomo. Ne deriva che tutto ciò che non è sacro, cioè posto fuori dall’arbitrio dell’individuo, diventa, inevitabilmente, merce. Il dissacrato è mercificato, può essere visto, toccato, soppesato, valutato in termini di mercato.

Il processo per il quale il sacro è, al contrario della merce, fuori dall’economia di mercato è chiarissimo nei testi più antichi della costituzione del monoteismo: il sacro, univoco, che convoca l’io innanzi a se stesso, ingaggia una cruenta lotta contro gli idoli che sono dei manufatti dell’io ai quali l’io si rivolge dunque narcissicamente per sfuggire al dialogo con il sé, che è l’alterità suprema (Dio) di cui l’io partecipa per sussunzione, ne è immagine, ma dal quale rimane separato e che ai suoi occhi si presenta ustorio, quando manifesto, altrimenti risiede al di sopra delle nubi, convocabile esclusivamente nel linguaggio del culto. In questo modo il sacro univoco corrisponde ad una alterità interiorizzata, in maniera astratta. L’idolo è una cosa. Un oggetto creato dall’io e caricato di valore nella sua consistenza di manufatto. I due termini dunque del nostro discorso attorno all’osservazione del reale sono, sinteticamente quelli che ruotano fra la visione sublime sub-limen, il sacro, e la merce più glamour che mai. Questa differenza è particolarmente evidente nella sfera dell’erotismo che si versa irrevocabilmente nella pornografia. La visione di un soggetto erotico, nel mondo senza limite del web, non è più il corpo bello dipinto o fotografato per un museo, dunque nato come opera d’arte, dall’astrazione ideale, che apre e sottende significati nell’allusione: il bellissimo nudo di Tina Modotti, ad esempio, riprodotto nei cataloghi di fotografia. Il nudo senza limite del web è un’immagine erotizzata, ammantata di eros, pur essendo altro, cioè merce, che secondo le regole del glamour, poiché proposta per il largo consumo, l’approvazione i like, è funzionale al commercio. Dunque il corpo nudo, ammantato di eros della donna su un medium diverso da quello dell’arte, sacra o profana, può essere venduto e comprato. E se anche non c’è circolazione di moneta il meccanismo è il medesimo. Su tale compravendita non grava alcuna restrizione poiché il mercato del web, essedo completamente aperto e svincolato dal limite, risponde solo alla sua grammatica interna. Alla grammatica commerciale della bellezza, il glamour, manca la consapevolezza allusiva e filtrante dell’arte. Per allusivo si intende quel filtro, tecnico, che fa di un segno, di una parola, di un’azione un’opera, svincolata dalla quotidianità e necessità del gesto comune, un emblema. L’emblema è un segno, di qualunque tipo, dotato di valori simbolici poiché allusivi a quella realtà completamente altra che il sublime può postulare al di là delle nubi.

Influencer, attrici, cantanti, che sempre più spesso scelgono il segno della nudità fisica per la pubblicizzazione di un loro prodotto commerciale, sovente la loro stessa immagine, non si propongono come emblemi: sono se stesse mercificate. Il confine fra arte come gesto extra-quotidiano e realtà quotidiana è annullato. Non c’è il valore simbolico del corpo nudo di Tina Modotti, che è dato da distanza e riflessione, non c’è filtro e allusione nei nudi quotidiani del web: essi sono piatti, mancano di idealità e riflessione teoretica. La sostituzione del sublime con il glamour fa sì che l’immagine di qualunque individuo che sia esposto nel mare magnum della comunicazione di massa, senza contesto e senza regole, senza ideali teoretici espressi in un principio di gusto, divenga, che ne sia consapevole o meno, una merce. L’individuo osservato oggettivamente e non più soggettivamente percepito perde il contatto con la sua più profonda intimità umana, che è dato dalla relazione con l’alterità, diventa un oggetto fra gli altri sul banco di un mercato. La sua esistenza è quantificabile con un valore meramente economico: è uno schiavo. L’umanità è, viceversa, ciò che distingue l’individuo dalla merce e che, dunque ne impedisce la compravendita.

Una delle prime attestazione complesse del divieto nella compravendita di individui appare in un testo di Deuteronomio:

Non vi sarà alcuna donna dedita alla prostituzione sacra tra le figlie d'Israele, né vi sarà alcun uomo dedito alla prostituzione sacra tra i figli d'Israele. Non porterai nella casa del Signore tuo Dio il dono di una prostituta né il salario di un cane, qualunque voto tu abbia fatto, poiché tutti e due sono abominio per il Signore tuo Dio.[4]

Qualunque sia la realtà antropologica sulla vera attuazione e funzione di una presunta prostituzione sacra a noi poco importa in questo contesto, quello su cui vogliamo invece gettare luce è la proibizione di trarre profitto dalla compravendita del corpo di un altro essere umano, e del suo essere riconosciuto come pegno di un giuramento.

Questo e altri testi simili sulla proibizione, da parte del Dio di fare commercio di esseri umani appaiono in un periodo di passaggio della religione ebraica dall’enoteismo al monoteismo puro e sono tutti permeati da un corollario di moniti che stabilizzano il giudaismo su un orizzonte nel quale è fatto esplicito e tassativo divieto del sacrificio umano in ogni sua forma. E la prima volta che la religione monoteista si inserisce nel corso della storia, uscendo dalla dimensione mitica del giardino edenico, con uno sguardo diretto del Dio lo fa proprio con una proibizione dell’omicidio, cioè dell’arbitrio dell’uomo sull’altro uomo:

Caino disse al fratello Abele: «Andiamo in campagna!». Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: «Dov'è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?». Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello».[5] 

Si tratta di una storia, come tante, di fratricidio per ragioni di interesse e di invidia. La cosa interessante di questo racconto è la completa assenza nel protagonista di quel sentimento che Heschel chiama timore dato dalla percezione della grandiosità: Caino ignaro, nel suo abominio, della grandiosità di Dio, non ha timore, non sente sopra di sé lo sguardo di Dio, non possiede la categoria del sublime per percepire quello sguardo, tanto che una volta scoperto nel suo crimine, finge di non sapere dove sia il fratello come se fosse realmente convinto di essersi potuto nascondere agli occhi del Dio onnisciente. Caino ignaro dello sguardo di Dio, si sente invisibile, e si sente non visto perché poco prima la divinità ha svalutato la sua offerta fatta con sotterfugio e avarizia; quindi egli si dimentica, volutamente, di uno sguardo che sente ostile e, annullando la percezione della grandiosità dello sguardo di Dio sopra di sé e attorno a sé, anziché riflettere su se stesso e sulle sue colpe, si lascia trasportare dalle sue pulsioni: uccide. Non riesce a interiorizzare la morale né a strutturare se stesso come individuo soggetto alla grandiosa legge etica, che permea l’intera natura, perché ritenendosi invisibile, a causa della sua inadeguatezza, crede di non essere visto nel suo delitto. Caino è l’archetipo dell’uomo convinto di non essere visto; sebbene ogni sua opera sia scrutata dalla divinità che lo osserva, in effetti, come in un acquario. La sua incapacità di  percepire come amorevole l’osservatore, in questo caso Eterno, dal quale si sente ingiustamente giudicato, anziché spingerlo ad una riflessione sulla sua azione genera in lui rancore, lo trasforma in un assassino. La riflessione che manca in Caino è la riflessione dello sguardo dell’altro in sé, la capacità di astrarre  il senso del sacro per contenerlo. Caino non sa sostenere la colpa per il suo sotterfugio, è preda di un corollario emotivo distruttivo, preferisce fingere di non sentire su di sé lo sguardo giudicante di Dio: è troppo per lui, sa di essere in colpa, ma non ha gli strumenti per rimediare al suo errore. Non vede Dio, non percepisce la legge etica dentro di sé. Come una diga che tracima: uccide. Scenderà  a patti con quello sguardo etico limitante di Dio solo nel momento in cui, dopo essere stato scoperto, avrà timore per la sua stessa vita. Un timore a posteriori e interessato, perché il timore a-priori di Dio è un timore estetico, sublime, senza interesse, in senso strettamente kantiano. Caino chiederà per sé la pietà che non ha avuto per l’altro. E qui si codifica il secondo pilastro giuridico del giudaismo nell’espressione “nessuno tocchi Caino”. Tale motto afferisce a quella serie di divieti di arbitrio sull’altro, anche in caso di sua comprovata colpevolezza, di cui la Torà è piena. Dei moniti sulla pietà verso il colpevole il cristianesimo farà, sviluppandoli in una estremizzazione concettuale, il suo fulcro dottrinale.

 

Nella concezione della setta di Jeshua ben Joseph e dei suoi discepoli nessuno può lapidare l’adultera perché sussiste una legge morale, a priori, che vige al di sopra di qualsiasi ordinamento giuridico umano. È significativo in questo senso confrontare le molte diatribe concettuali sviluppate più tardi, dell’ebraismo rabbinico, nelle quali è ribadito con la formula “non è nei cieli” che la legge emanata da Dio è tuttavia strumento di amministrazione umana, in quanto data all’uomo, sulla quale neppure la voce superna che squarcia le nubi ha patrocinio. Dell’a-priori etico, rispetto al dettame giuridico, il misticismo messianico è invece araldo.  Altro non è quell’a-priori che il rispecchiamento nell’altro, una riflessione fuori dal sé: “chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra” l’immedesimazione è una ri-flessione, la coscienza dell’altro come visione della mia coscienza: è una visione di un doppio cosciente del sé che porta all’immedesimazione e determina un’autolimitazione. L’immedesimazione presuppone la precomprensione dell’altro su una complanarità con “me stesso”, come soggetto, e non dell’altro oggettivato come merce. Ma la distinzione soggetto-oggetto soggiace a una fatica ontologica e richiede una capacità astrattiva, capacità di astrarre il sacro come altro e nell’altro. La capacità di astrazione è un processo tutt’altro che banale. E qui è necessario ritornare  alla questione dell’ingresso nel monoteismo. Il monoteismo necessita l’abbandono degli idoli. Gli idoli sono concreti, affamati e per questo bisognosi anche di sacrifici di sangue e di carni, di riti di fertilità, essenziali in una civiltà che ha scoperto l’agricoltura, sono oggetti riconoscibili ai sensi. Il monoteismo li sostituisce con gli ideali interiorizzati, di una morale codificata in leggi scritte e sacrifici simbolici, coincide cioè con quello sforzo ontologico di astrazione che permette di codificare la distinzione soggetto-oggetto. Questo nuovo modo di intendere il divino da parte dell’uomo amplia le sue strutture intellettive sul versante dell’intangibile. È radicato in una collettività che fonda la sua convivenza  su “patti”, cioè quelle azioni che etimologicamente rimandano al simbolico, in greco siumballein e il simbolico è azione riferita al ricongiungimento di due pezzi di una tessera emblema di un dato accordo tra i contraenti. La tessera è emblema, come il nudo che passa attraverso il filtro dell’arte è emblema. In questa collettività senza idoli viene dunque bandito l’uso dell’individuo in quanto proprietà, “cosa”; è regolamentato persino il termine di possesso temporalmente non illimitato di schiavi. Sono banditi, di conseguenza, i sacrifici umani, perché l’uomo che percepisce il sacro è partecipe della sacralità che è per sua natura “intoccabile”. È bandita l’uccisione; è bandito il furto, sottrazione arbitraria di ciò che necessita all’atro per vivere. Il primo uomo mitico di questa collettività nuova senza omicidio e sacrificio di sangue è Abramo che nell’episodio della legatura di Isacco viene fermato dal sacrificio del figlio perché, appunto, i tempi sono cambiati: siamo entrati a pieno in una società patriarcale. Le cui caratteristiche sono strutturate a partire dalla responsabilità paterna sulla prole. Responsabilità che ne implica la tutela e che esclude il diritto a farne un uso mercificato. Fulcro di questa nuova società è la relazione matrimoniale legittimata, all’interno della quale i figli nascono nel diritto a ricorrere alla tutela paterna poiché il padre è riconosciuto come genitore. E sempre il capostipite Abramo è richiamato a seguire le parole desideranti della moglie, per stabilizzare la sua dinastia, anche quando queste parole muliebri gli sembrano crudeli e aliene alla sfera dei suoi sentimenti. Tale percezione del patriarcato come struttura fondante e tutelare della società rimane stabile almeno fino all’epoca industriale, durante la quale la donna, attraverso il lavoro si emancipa gradualmente dal suo ruolo materno e di cura all’interno della famiglia e conquista un proprio ruolo individuale in antitesi alle restrizioni che, nel corso dei secoli, quella società patriarcale le ha imposto. Accanto alle restrizioni imposte vi sono, però, da considerare le tutele garantite. Prima fra tutte le tutele che la civiltà patriarcale garantisce alla donna è l’indissolubilità del vincolo matrimoniale nell’ambito del primo cristianesimo. L’indissolubilità del vincolo matrimoniale è giuridicamente volta ad impedire l’abbandono della madre e della prole, che diventano i capisaldi del patriarcato, in quel patto che unisce simbolicamente, in un sinolo linguistico e giuridico, mater e moenia, cioè la madre e i beni. I beni, del padre, seguono la madre e i figli. Un uomo che ha contratto matrimonio non può più abbandonare, a suo piacimento, madre e figli. Ne è responsabile: il matrimonio codifica la responsabilità paterna, richiama il maschio ad una complanarità di doveri nella genitorialità rispetto alla femmina che quei doveri li conosce biologicamente. Fino agli anni sessanta del secolo scorso l’istituzione del matrimonio e, tutto sommato, della società patriarcale rimangono, nel bene e nel male, immutate.

È lecito chiedersi, davanti ad atti abominevoli di efferata violenza ed omicidio compiuti verso le donne e persino le fanciulle più indifese, se sia da trascinare sul banco degli imputati il patriarcato nella sua portata storica fondante di una società del diritto. La società così detta patriarcale è la prima nella quale viene, di fatto, impedito all’uomo di uccidere i suoi simili, maschi o femmine che siano. Trascinare sul banco degli imputati il patriarcato come archetipo di violenza è non solo improprio dal punto di vista della storia umana, ma distoglie l’attenzione dal vero fulcro del problema della violenza dell’essere umano contro l’essere umano. Problema che va ricercato invece nell’assenza dello sguardo, vigile e morale sull’altro. Esso è sguardo imparziale perché postulato kantianamente al di furi dell’agone dell’arbitrio di parte, come categoria di riferimento forma e certa. Tale sguardo è reciproco, di immedesimazione e comporta dunque la riflessione, contro la brutale immediatezza dell’azione istintiva. In altri termini quella che George Brockwell King chiama The negative golden rule[6], la regola d’oro negativa: “non fare a gli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”: norma principe dell’universalità dei diritti dell’uomo, quella dichiarazione di attributi inalienabili e costitutivi di ciascun individuo umano che, sul modello delle prime leggi semite, viene dedotta a partire dall’assunto “non uccidere”. Non uccidere perché c’è una legge morale dentro di te posta da un arbitrio che ti prescinde. La questione dello sguardo morale, in una civiltà avvinta e soffocata da una incontrollata mole di immagini svincolate dalla morale, sempre più veloci e di dati di realtà sempre più incerti, è il problema centrale. Quanto la mancanza dello sguardo, di una visione del sé che sia significante per l’altro e nell’altro, e portatrice di valori, sia questione centrale, è una percezione immediata in chiunque abbia svolto una attività d’insegnamento a contatto con i giovani o bambini in età scolare. Il bambino, sbigottito da un efferato omicidio, e in possesso di un patrimonio mitologico, soggetto o meno a una razionalizzazione, comunque depositario di archetipi morali, domanda: “Ma il ragazzo che ha ucciso la sua fidanzata non sapeva di essere visto da Dio, come Caino?”. Il nostro tempo, posteriore alla razionalizzazione del mito, ha decretato la fine di ogni apparato simbolico e mitologico, capace di stabilizzare la realtà dell’io attraverso archetipi immediatamente riconoscibili ai quali la coscienza possa attingere. La realtà dell’io non è più contenuta in un contesto dotato di limiti atti a decretare l’ineluttabilità dell’altro e non lo riconosce più come quel terzo che impedisce all’io di congiungersi con il suo doppio in un  bacio letale. Il bambino che non è più in possesso di un patrimonio mitologico, archetipico, orientato simbolicamente, contenitore, dunque, di precetti etici sintetizzati in racconti mitici, non ha gli strumenti per porre, anche inconsapevolmente, una domanda di tipo etico. Senza la domanda etica fondamentale sull’altro il mondo del web diffuso a macchia d’olio crea principalmente dei doppi dell’io, dei doppi soggetti mistificati e in questo gioco di doppio caleidoscopico, l’essenza incontestabile e univoca della coscienza dell’individuo si perde: si perde l’hecceitas, il principium individuationis, e si entra in uno status di somiglianze ed eguaglianze che anestetizza ogni residuo della coscienza di sé e dell’altro come soggetto reale portatore di un valore a priori eticamente espresso, con tutti i divieti e le interdizioni di nuocere all’altro che ne sono corollario. In altri termini l’imputato della mancata percezione dell’altro non è il patriarcato. L’ io di quell’uomo l’assassino, che, di fatto, non è stato mai visto da nessuno, nonostante sia stato mille volte osservato, può percepire l’altro solo come percepisce se stesso: oggetto mercificato e dunque, in quanto oggetto, non più soggetto tutelato dalle leggi eterne della morale, ma materia inerte di cui disporre a piacimento per la soddisfazione del proprio desiderio e bisogno primario fino a decretarne l’eliminazione, crudele e senza l’angoscia dello sguardo morale. Lo sguardo morale interiorizzato dall’uomo nuovo, consapevole del limite è propriamente quello sguardo istituito dal monoteismo giudaico-cristiano, che ha informato di sé la storia dell’umanità. Il limite di quello sguardo interiore verso di sé è l’altro individuo.

Una civiltà senza limite, senza l’estetica del sublime, è, di fatto, una civiltà senza strutture. Anzitutto senza strutture simboliche, dunque senza tasselli per la costruzione di strutture morali, ovvero quelle dinamiche psiche per le quali l’uomo si distacca dall’idolo, manufatto, e si volge all’ideale. L’idea, l’apparato concettuale composto di idee che riproducono il mondo e lo performano, filtrandone gli istinti brutali, attraverso l’unico strumento volto a tutelare l’individuo dall’assassinio: l’etica. Una società nella quale l’io del singolo si costruisce nello sguardo della collettività, non è inedita. Gli eroi omerici sono da costruirsi attraverso le loro ineluttabili azioni, ma sono, pur sempre azioni regolate secondo una struttura morale per quanto imperfetta dal punto di vista moderno, e non mirabilmente astratta come quella monoteista. Ma la civiltà greca possiede una mitologia e un corollario di archetipi, ha la “figura” che è un tipo di immagine già determinata, vera ma confusa. L’io costruito nell’immagine del mondo virtuale in cui siamo immersi,  si costruisce nell’osservazione vuota. L’osservazione vuota è proprio un’ osservazione senza rimando ad una categoria etica archetipicamente sintetizzata. Un occhio sociale che spoglia l’uomo di tutti i suoi connotati, (al contrario di quanto accade nella società omerica nella quale l’occhio sociale veste l’eroe delle sue caratteristiche archetipiche) umani, estetici, erotici, eroici, politici e lo trasforma in merce, puro oggetto di commercio. Merce che assume un valore nel consenso o nel dissenso di una massa che ne decreta la gradevolezza alla luce del glamour, ovvero delle regole arbitrarie che si è data in base alle sue esigenze di commercio. Il glamour, come già appurato, a differenza del sublime non ha profondità, si autodetermina. Non risiede sotto quel limine caelis di cui ci parla Heschel, non ha modo di vederlo dalla sua posizione. Una grammatica spicciola, da contabilità del momento non ha la percezione estetica della soglia, del limite. È fuori dal recinto protettivo dell’io, sul quale vigilano gli archetipi, quel recinto umano, dunque sacro, prima del precipizio senza morale dell’abominio nel quale l’uomo uccide il proprio fratello. La contemporaneità è certamente già uscita da un ambito patriarcale classico, con tutti i suoi limiti, ma per tornare al paganesimo puro nel quale gli ideali sono sostituiti da idoli - e gli idoli sono concreti - danaro, beni, titoli, riconoscimento sociale in base al possesso di cose e persone percepite alla stregua di oggetti come accade nel paganesimo pre-giudaico.

È interessante considerare per un momento quel che è stato, in epoca moderna, il più grande collettore per la diffusione dell’apparato simbolico che permette di accedere all’astrazione etica. Il livello di astrazione della complessità che porta a sentire lo sguardo morale come limite all’omicidio ha bisogno di essere fissato simbolicamente, e quindi può essere pattuito. E il più perfetto sistema di diffusione essoterica della dottrina della non-violenza sono i movimenti legati al misticismo messianico, in particolare il cristianesimo, che propone un giudaismo elastico. Il giudaismo elastico, svincolato dalla superfetazione di precetti dell’ortodossia, estende la partecipazione ad individui che si trovano al di fuori del ristretto nucleo elitario nel quale si è affermato, contaminandosi. In questo modo accade un fenomeno in larga parte inarrestabile. La religione, con il suo apparato rituale, offerto alle masse, dunque a un numero di individui privi delle precomprensioni teoretiche delle élite, si costituisce come simbolo gigante nella mediazione fra l’uomo e l’etica. E comincia quel percorso virtuoso nel quale etica e cultura si fecondano vicendevolmente fino ad arrivare ad una definizione di individuo come portatore di diritti universali e inviolabili. Questo non vuol dire sottendere gli eventi storici e il regresso, sempre in agguato, all’ordalia delle barbarie nella quale l’uomo uccide l’altro uomo. Ma, al di sopra del regresso sociale al quale qualunque atto di pensiero è soggetto, la dottrina cristiana, essendo elastica, riesce a confinare la colpa, e il regresso stesso, nel solco della devianza, come malattia della morale, curata la quale l’individuo può essere reintegrato nella collettività: distinguere l’individuo dalla colpa è una rivoluzione teoretica. Cosa accade con la progressiva laicizzazione della società? Viene meno il grande apparato simbolico che lega cultura e morale, e può dunque permettersi il lusso rivoluzionario di distinguere l’individuo dalla colpa, proprio perché ha definito la soggettività.  È  straordinaria a questo proposito la riflessione di Cristina Campo sulla potenza della liturgia che, nella sua complessità artistica e simbolica, dischiude il livello del sublime anche all’individuo meno capace di astrazione e quindi ne facilita il ritorno al consesso umano senza colpa: la reintegrazione nel patto di non violenza.

Unico tentativo moderno della ricostruzione di un apparato simbolico su vasta scala equivalente a quello del cristianesimo è l’uso che la grande utopia Marxista, con tutti i suoi connotati messianici, fa della poesia. Basti pensare al modo essoterico in cui la poesia di Majakovskij è data alle masse. Ma la caduta di ogni struttura simbolica capace di mediare il contatto con l’etica, ha lasciato nel mondo uno spazio vuoto. Questo spazio vuoto è stato conquistato dalla mercificazione. Ovvero da quel commercio di idoli che qui io chiamo neo-paganesimo. Il più grande indicatore del commercio umano è il postulato di una “morale personale”, una contraddizione in termini che è una radicalizzazione del relativismo morale. La morale personale è null’altro che un insieme di riferimenti arbitrari e non condivisi, validi per il singolo o per la sua tribù che lo portano ad uno scontro con altre realtà tribali. Questi scontri che in un primo tempo appaiono giochi distanti e innocui, perché appannaggio di gruppi immateriali, chiusi nel web, hanno, nel lungo periodo, una drammatica ricaduta sul reale ricaduta volta a distruggere il residuo di realtà condivisa, dunque realtà etica, come è stato fatto col sacro e col sublime.

L’uomo di questa società virtuale non è più il patriarca classico: l’uomo responsabile secondo un indirizzo etico universale e a lui sovrastante. È l’uomo di successo. Il grande imprenditore, l’uomo ricco, l’uomo famoso, il cantante, l’attore, il campione sportivo, l’uomo che possiede beni e che è lodato per la sua scaltrezza nell’accumularli. Un tale soggetto, oggi osannato dalle masse post messianiche è, ad esempio, inconcepibile nell’etica manzoniana ottocentesca. L’uomo ricco che sacrifica ogni cosa sull’altare del profitto è un risultato ultimo della società della merce. Questo modello di uomo è l’unico proposto ai giovani dalla società della merce. L’uomo-merce non ha la necessità di essere istruito, tanto meno erudito, né partecipe di alcun apparato etico. Non gli serve per avere successo. Il successo lo porta alla visibilità. E sulla piazza virtuale egli non ha bisogno dell’habitus che lo distingua, può presentarsi in biancheria intima. Imporre uno stile come fanno da sempre le élite, ma queste élite sono completamente estranee alla tradizione etica fondata sul quell’assunto, tutt’altro che scontato, “non uccidere”. Da questo nascono gruppi di giovani che si sfidano come bande criminali, guidati da un idolo che intona canzoni violenti, i loro inni, piccoli criminali che si divertono a torturare creature fragili per offrire lo spettacolo della tortura al web. Il web è il contenitore perfetto del sadismo, che mai come in questi tempi ha toccato, in tutti i livelli, il suo apice concettuale di condivisione sociale. Ovviamente questo espone a un rischio di normalizzazione dei comportamenti sadici che, in una società etica, potevano essere bollati come devianti e, consegnati all’ambito del crimine, marginalizzati.

Non è dunque il patriarcato responsabile della violenza sulle donne, ma l’assenza del limite etico, di cui psichicamente il padre è il controllore.

La figura paterna è per sua natura limitante, è il terzo che impedisce al figlio un ricongiungimento edipico con la madre, e in questo apre il mondo del figlio alla comprensione di quei patti etici che limitandolo lo garantiscono nel suo sviluppo emotivo appagante di alterità. Non è l’incombenza di un modello paterno oppressivo che genera mostri, ma l’assenza di un modello paterno responsabile. La responsabilità è null’altro che la capacità di fornire risposte agli interrogativi etici fondamentali: perché non uccidere? Perché non rubare? Perché non mentire? Perché anteporre l’etica all’interesse? L’uomo invisibile non può dare risposte etiche perché non possiede più i simboli che all’etica gli danno accesso. Il sinolo cultura- etica è stato frantumato dalla mancanza di apparati simbolici in grado di dispiegarne la dolorosa complessità. Dolorosa perché portatrice comunque di rinunce dell’io in favore della relazione con l’atro. Perché le donne sono il soggetto privilegiato per queste forme di violenza senza sguardo da parte di individui invisibili? Perché tecnicamente vi si consegnano sacrificalmente, come fa Antigone, per ricostruire il nesso di bene interrotto dal delitto: scendono vive nella tomba.

La creatura che si consegna al suo carnefice lo fa seguendo il suo istinto di cura del mondo. Si sente in colpa del dolore del suo futuro assassino, se ne sente responsabile. Teme che egli, nella sua fragilità possa nuocere a se stesso: lo segue sul patibolo, ignara del fatto che egli è completamente privo di quelle istanze morali, che invece possiede la sua vittima che lo vede eticamente, quelle istanze che pongono il limite all’uccisione dell’altro, quello sguardo che Caino non sente su di sé. Perché questo sentimento di cura dell’altro alberga nella psiche delle donne in maniera così preponderante? Perché è impossibile eradicare dalla psiche femminile il sentimento primario di maternità e cura del mondo. Le donne uccise da fidanzati, mariti, compagni, uomini che non sentono nei loro confronti alcuna responsabilità, sono animate da un sentimento materno, giusto, di cura nei confronti del proprio assassino che le porta a sottovalutarne la spietatezza.

L’assassino non uccide perché in lui preesiste un modello patriarcale, sano, e, per quanto vincolante, in primo luogo tutelare, ma perché non ha un modello paterno limitante: è un pagano adoratore di idoli: danaro, fama, possesso di beni, beni dei quali fa parte anche l’altro per eccellenza: la donna. L’uomo pagano deresponsabilizzato, deposta la sua funzione primaria e arcaica di protettore del mondo, istituita con il vetusto patriarcato, torna al rango di bestia e padrone della vita altrui che può prostituire a suo piacimento per trarne profitto e che può interrompere, a suo piacimento, poiché è certo di non essere visto. E gli ordinamenti giuridici sembrano non essere in alcun modo deterrenti, una volta che quelli etici sono crollati lasciando l’uomo solo. L’uomo senza etica del nostro tempo è un uomo solo. Il grande assente nel nostro mondo è l’osservatore etico. Colui che è capace di una visione colma di significati, contrapposta all’osservazione vuota e distratta di cui l’uomo moderno fa abuso. La pornografia che prevale sull’eros ne è un esempio lampante.  L’uomo che uccide una donna non lo fa convinto di ottenere la corona di patriarca ma perché è certo di non essere in alcun modo degno di alcuna corona. Caino, uccidendo il fratello non spera di prenderne il posto nella considerazione sociale, familiare e all’occhio etico di Dio, uccide perché è perfettamente consapevole di non meritare la considerazione che è data a sua fratello. E rientra nei ranghi del tessuto sociale solo per l’amnistia morale che l’Ordinatore supremo gli concede: non essere ucciso come ha ucciso. Quella impraticabile dottrina del perdono della quale il cristianesimo fa il suo massimo attributo semantico.

L’idea di un mondo senza un’etica condivisa, senza una responsabilità condivisa parimenti fra uomo e donna, l’idea che l’individuo non sia più il frutto dell’amicizia fra uomo e donna nella loro più sublime relazione generativa che determina la nascita, l’idea al contrario che la procreazione, la nascita, siano svincolati da relazioni amichevoli fra gli individui è null’altro che un’astrusa teoria dell’estinzione umana nell’ambito di un esteso neo-paganesimo. L’idea di un ritorno ad un mondo senza alcuna codificazione relazionale e senza la responsabilità etica  che ne deriva è null’alto che un ritorno a quel mondo pagano nel quale è permesso all’uomo sacrificare l’altro uomo sull’altare della sua più viscerale pulsione. Le donne sono vittime privilegiate di questo olocausto perché sono chiamate al loro ruolo, imprescindibile e inusurpabile, di generatrici del mondo, del suo senso e del suo significato: la nascita. L’origine.

Qual è dunque l’antidoto al femminicidio, termine orrendo!? Distruggere l’idea distorta del patriarcato che emerge come un fantasma dai connotati nebulosi?

A mio avviso no. Questa esasperazione confusa e dualistica istituisce solo un nemico di comodo, irreale, che fa ricadere la colpevolezza su tutti gli uomini, anche su quelli che di sentimenti criminali sono innocenti. Crea un conflitto dal nulla.

L’antidoto è l’edificazione di un’idea chiarissima del senso di responsabilità dell’altro come primato etico.

Edificazione di responsabilità che non può essere fatta al di fuori dell’etica, che non può essere fatta al di fuori di un’etica chiara e condivisa. Un ragazzo che diventa assassino è un ragazzo che non è mai stato visto nei suoi reali bisogni. Che non è mai stato visto nelle sue fragilità e curato nelle sue paure, che non è stato soccorso quando lanciava segnali disperati. Segnali che la società non vede più, perché la sua visione è vuota. Che la famiglia non è più in grado di cogliere, impegnata a spingere  i suoi figli verso il successo, secondo canoni di un benessere economico, segnali che la scuola stigmatizza senza capacità di ascolto.

L’assassino lancia sempre un segnale prima di uccidere, ma nessuno  vede l’allarme, se non la sua vittima che lo segue, in campagna, come un fratello.

 

È necessaria la riedificazione dell’uomo etico, dell’uomo sublime dell’etica, come uomo socialmente eccelso.

Queste caratteristiche di uomo etico, di maschio etico, non sono estranee alla cultura occidentale, sono le stesse che ci consegnano i poemi epico cavallereschi, quell’apparato mitopoietico di cui l’uomo ha bisogno per identificarsi, dal quale nasce la narrazione popolare che sostiene l’etica del mondo moderno: il cavaliere non è un laido assassino di fanciulle. È un grande protettore. L’ideale cavalleresco è strettamente legato alla protezione dell’indifeso e nasce nell’ambito del cristianesimo. Il tristemente vituperato principe azzurro, defraudato anche dalla sua ultima dimora Disney nell’inconscio collettivo, non è il limite all’emancipazione e all’autodeterminazione femminile: ne è un tenero compagno. L’assassino è il deviante, è l’uomo cieco della morale che crede di non essere visto perché non vede.

Lo sguardo dell’altro e sull’altro, lo sguardo etico e amoroso, non accecato dalla mercificazione mediatica è l’unico antidoto alla morte dell’umano. Una impeccabile descrizione di questo sguardo è nel poema epico cavalleresco di Matteo Maria Boiadro, Orlando innamorato, al terzo libro del sesto capitolo. I protagonisti della storia sono due paladini cristiani, Rugiero e Bradamante, impegnati in una cruenta battaglia contro i saraceni, si muovono su destrieri abbastanza selvatici, contro nemici potenti e la lotta si fa aspra, senza esclusione di colpi. Bradamante è una donna, il suo valore in battaglia è straordinario e Rugiero nel mezzo della battaglia non può fare a meno di guardarla, così scrive Boiardo:

 

Ma Rugier presto venne ad aiutare,
lasciando Pinador che ava avante;
però che, benché assai abbia da fare,
sempre voltava gli occhi a Bradamante.

 

Rugiero è indubbiamente uno fra i più valorosi paladini del poema. Il suo sguardo sull’ardimentosa Bradamante, sguardo che non lo distoglie dal suo impegno, è sempre di ammirazione, di amore, mai diventa uno sguardo competitivo, mai Rugiero metterà in dubbio le doti e il valore di paladina di Bradamante la quale mai si porrà il dilemma della scelta fra la sua femminilità e il suo valore cavalleresco: lei è una paladina fra gli altri paladini e ama Rugiero che cercherà per tutto il poema, perché lo ama, nonostante la vicenda cavalleresca li separi. Ma non c’è un conflitto di genere fra i due: c’è lo sguardo, lo sguardo pieno di visione: “però che, benché assai abbia da fare,/ sempre voltava gli occhi a Bradamante.” Lo sguardo etico e amoroso figlio di una società indubbiamente patriarcale e cristiana che non svaluta in nulla una figura femminile la quale, per sua scelta, partecipa alle imprese di cavalleria.

La bellezza, la grandiosità che l’arte dischiude: il patrimonio dell’etica, il timore della trasgressione al vincolo etico che, simbolicamente, lega gli individui al patto indissolubile della non violenza. Questa è la sola via per emancipare ed emanciparsi dalla violenza. Il recupero di una realtà condivisa, quella che sottostà al segno che la descrive.

Condannare la moltitudine maschile del mondo ad un generico mea culpa è un atto sconsiderato che crea solo un nemico concreto a partire da un nemico immaginario. Quello che serve al maschio è il ricordo del paladino che giace dentro di lui nel sonno anestetico dell’etica crollata, del paladino che è l’uomo etico che l’epica cavalleresca ci consegna come simbolo e sinolo di cultura e morale e l’uomo etico paladino della giustizia è il contrario del miliardario, è il contrario dell’assassino, è il custode dell’altro colui che capace di vedere la grandiosità dell’etica alla domanda : “dov’è tuo fratello” può rispondere: “qui, al sicuro, al mio fianco”.

Fuori da questo campo visivo l’uomo è solo.

 

[1] Abraham Joshua Heschel “L’uomo non è solo”, una filosofia della religione Mondadori 2001 p. 19

[2] Dizionario online Treccani

[3] Ibid.

[4] La sacra Bibbia, C.E.I. 2008 Deuteronomio 23, 18-19,

[5] Ibid. Genesi 4, 8-12.

[6] The “negative” Golden Rule, George Brockwell king, The Journal of Religion, University of Chicago press Vol.8 No.2 2015

 

 

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