di Ivano Testa
Franca Mancinelli, Pasta madre, Nino Aragno, 2013
C’è qualcosa di evangelico nella poesia di Franca Mancinelli; forse la buona notizia è quella dell’essere andati e poi ritornati. Andati dove? Lì dove le cose hanno una caduta leggera e lo sguardo cade leggero sulle cose, lì dove è soprattutto il bianco, la fitta nebbia o il ghiaccio, il puro come il puro ascolto o il puro attendere. È in questo bianco che il lettore è proiettato – che può vedere la sua stessa sagoma –; uno spazio nel quale la parola si desidera stando in mare alla ricerca di un’isola, di un approdo. Il soggetto approda: se pur per brevi frangenti, in cui la mente è accesa; la mente sentinella che registra la traccia di un messaggio concreto, preciso come un segnale morse. Si avverte questa tensione, questa lama di respiro con cui vengono scanditi i versi, questa lama che vuole essere un alito caldo, di madre appunto. Certo lo spazio è soprattutto quello del bianco, quello dell’assenza meditativa e quindi del ritrovamento; uno spazio che più che essere il frutto di un movimento – uno spazio motile – è uno spazio espansivo, che procede per accrescimento: […] aspettavo tremando che crescesse / fino a qui, che un orlo / azzurro si allungasse / a toccare l’orizzonte, la punta / dell’ultima montagna. Uno spazio in cui il soggetto è presente, non si muove e parla, ha un tu davanti e questo tu spesso è se stesso. Un soggetto profetico, che sa vaticinare lapidariamente, che fa atterrire; un soggetto evangelico appunto, che si sottrae a se stesso e che in questo sacrificio accende un’aura di santità, segno della sua separazione. La separazione dalle cose del mondo? Probabile. È più la natura che il mondo a manifestarsi in questa poesia, è più il corpo che la città; il corpo anzi come una città, con i suoi vicoli, le sue strettoie, i suoi nuclei. Un corpo che raccoglie e custodisce semi, che è la stessa terra in cui si piantano: un sacchetto di semi / per il deserto che sta arrivando / […] dovrai seppellirti / tornare calda radice. Ricorda il passo del Vangelo: seme che muore dà molto frutto. In questa poesia si muore per rimanere vivi, in questo è miracolosa. Una poesia in cui si crede come ad un miracolo, che si fa portatrice di una dinamica della salvezza, che come obiettivo del tragitto ha il risvegliarsi. Tragicamente e contraddittoriamente quella della Mancinelli per la poesia è una fede, la fede in una «bocca che passa calore / all’aria come potesse svegliarsi / essere ancora salvata». Una fede che evangelicamente vuole coinvolgere tutti, che ci chiama e ci evoca nella sua causa perduta in partenza, che lascia la traccia di una perdita e dalla perdita fonda l’eredità.
qui non c’è pronuncia
si serrano i denti
il collo avvolto
nel caldo delle mani, obbedienti
al dovere che disegna
nel muro una porta.
*
con un fianco immerso nella siepe
e mani che triturano feroci
andiamo fraterni accarezzando
il torace dei cancelli. Bambini
sgusciati per la strada, una musica
di sbarre e di ringhiere.
*
ho scritto quello che volevo dirti
sotto le palpebre. Domani
appena le riapro leggerai.
Ma guardami soltanto e non dovrò
portare tutto il bianco tra le ciglia.
Dammi i tuoi occhi e sarò salvata.
*
darò semplici baci di sutura
verserò saliva a ogni giuntura
sarò sbucciata e dolce ai denti.
Ogni mattino ti coglierò un pugno
di fiori dal selciato.
Per te avrò aghi sempreverdi
e sboccerò ogni inverno per bruciarmi.
*
torno a immergermi nel corpo
azzurro e buono di una domenica
mattina, fraterna ad altri
senza capelli e occhi, muti
come in un giorno di lavoro
per corridoi
con altre ombre accanto.
Ma in questo chiaro di saliva
cloro e seme, abbandonata ognuno
la sua scorza, gesto dopo gesto entriamo
bambini con un segno d’acqua in chiesa.
*
lasci la pelle sul lenzuolo
come una biscia al cambio di stagione
e un sacchetto di semi
per il deserto che sta arrivando
oltre le reti, le dighe
colme senza rimedio.
Dovrai seppellirti
tornare calda radice.
*
dischiusi all’equilibrio, hanno creduto
al varo e alla deriva
nel moto continuo. Anche i gabbiani
passano su di loro senza grida.
Così dopo un incidente
restano sull’asfalto frutti intatti.
*
trafigge il sole polsi abbandonati.
Semivivi o cadaveri
sparsi come fiammiferi
di una torre crollata.
Ora la pelle prende fuoco
perché del sangue resti impronta secca.