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Pancia d’Asino di Andrea Abreu – Tutti i baci che abbiamo dimenticato di darci

Infanzia e sessualità nel romanzo d’esordio di Abreu

di Luigi Sepe Cicala

Andrea Abreu, Pancia d'asino, Ponte alle Grazie, 2021

Non vi è conoscenza che non sia parziale, né giudizio che non sia arbitrario. Se mi chiedete del romanzo di Andrea Abreu, penso a un paese rurale, a una collina, a un vulcano. Ad un cielo sempre coperto. Ad un caldo torrido e a un’estate che sembrava un’estate come tante, ma che invece ha finito per imprimersi, per sempre, negli occhi di due bambine. Se il romanzo fosse un’immagine, sceglierei quella di Isora e Shit, le due protagoniste, che in camera della nonna di Isora si strusciano, una sopra l’altra, desiderandosi senza sapere ancora cos’è il desiderio, amandosi, senza sapere ancora cos’è l’amore. O, ancora, l’immagine del sedere grosso di Isora che scivola fra le piante, e che accompagna Shit verso una giornata tristemente indimenticabile. Se invece il romanzo fosse un suono, sceglierei quello di una parola, fisquito, una parola del dialetto canario (che la traduttrice ha deciso sapientemente di non tradurre) e che vuol dire poquito, poco, pochetto. Perché questo romanzo è tutto un “fisquito di questo” e un “fisquito di quello”, e questa parola ti accompagna per tutto il tragitto, risuonandoti in mente anche dopo l’ultima pagina, almeno un fisquito. Oppure, ancora, il suono delle parole inglesi, volgari e storpiate, di Isora che, a soli dieci anni, chiama la nonna Bitch e la migliore amica – la voce narrante del romanzo – Shit. Se invece il romanzo fosse una corsa a perdifiato, sceglierei la pagina 58, e la 59 e la 60, pagine in cui non esiste punteggiatura – non una sola virgola, né un solo punto –, pagine intitolate “mangiarmi isora” e che iniziano così: isora aveva gli occhi verdi come un ramarro verde come una mosca d’agosto su un panino all’insalata di tonno sulla spiaggia di teno come una bottiglia di vino vuota […] isora aveva le tette rotonde che le erano spuntate come la terra quando sputa un fiore che prima è piccolino poi grande la terra del suo petto asciutta poi smagliature la tetta non entrava nella pelle e piangeva isora aveva i peli sulla patata e a volte se li rasava tutti fino al buco del culo e le pizzicava il culo isora aveva dei peli neri dritti e folti come il pratino finto dei griturismi sulla patata i peli di isora sapevano di mulino di gofio di mandorle tostate di pane biscottato veder arrivare isora mi faceva sentire tranquilla come quando ascoltavo il minestrone bollire a mezzogiorno e mezzo […] isora aveva le labbra rosse sembrava che gli avessero spaccato la bocca con un cazzotto e io gli davo baci sul rosso dietro il centro culturale isora era la mia migliore amica io volevo essere come lei […] shit mi chiamava shit perché la merda era una cosa meravigliosa bella come la foschia tra i pini… E se il romanzo fosse un ricordo, sarebbe quello della volta che Isora e Shit si rincontrano, dopo aver litigato, e si baciano, in silenzio, sotto la pioggia dietro il centro culturale. E se fosse un ricordo dimenticato, soppresso, perso sulla via per l’età adulta, sarebbe tutte quelle volte che i banchi tremavano durante le lezioni a scuola, perché prima Isora e poi Shit iniziavano a strusciarsi, mentre il maestro spiegava, contro il piede di un banco fino all’orgasmo. E se fosse un bacio sarebbe tutti i baci che non si sono mai date, tutti i baci che Shit avrebbe voluto dare a Isora ma che per paura non le ha mai chiesto. Se questo romanzo fosse un’idea, sarebbe quella per cui la società (soprattutto nel caso della donna, la società patriarcale) ci costringe a rimuovere cosa è stata veramente la nostra infanzia, sostituendo alla verità la menzogna di un’infanzia candida e casta. O ancora l'idea che la vita adulta ci costringe piano piano a immetterci su un binario, una costrizione linguistica – le parole e la sintassi dei dizionari – che è anche una miope visione del mondo, ci costringe a mettere etichette e a camminare sul binario dell'eterosessualità o dell’omosessualità, dell’amore o dell’amicizia, cose che sembrano contrapporsi ma che invece nel mondo di un bambino convivono tranquillamente, senza che l’una debba escludere l’altra. Se fosse un odore, sarebbe quello penetrante della cacca di Shit che un giorno Isora ha nascosto in un barattolo, lasciandola a putrefarsi lentamente dietro il frigorifero del negozio della nonna. O quello dell’assorbente di Isora, con su una macchia nera del colore del catrame sciolto, l’odore del mestruo, simile a quello del sacchetto nero della spazzatura, l’odore stesso della vita senza edulcorazioni. Se questo romanzo, infine, fosse davvero un romanzo, sarebbe un diario, non il diario di una donna, ma quello scritto di getto di una bambina, il diario in cui Shit descrive tutto ciò che le succede e le è successo, ma a parole sue, non per farsi leggere ma per se stessa; un diario scritto lasciando fluire i ricordi senza mai riprendere fiato, senza tornare a rileggere le parole ma fidandosi solo del ritmo incalzante del cuore e delle idee. Un diario che fa intravedere, a noi che leggiamo, la possibilità di un rapporto diverso col mondo, o che ci fa riscoprire un mondo che siamo stati costretti a dimenticare, a mettere da parte come falso, a nascondere come una colpa sulla via piena di curve che significa “crescere”. E se fosse una sensazione? Sarebbe semplicemente la sensazione di un caldo torrido, fino alla nausea, di un sole sempre coperto dalle nuvole, o quella di un suono che s’alza all’improvviso e che solo dopo capisci essere vento: un vento che piega le cime degli alberi, che spazza finalmente via le nubi e che, come uno squillo di tromba, sembra sancire il passaggio all’età adulta. Un vento che dopo tanti anni soffia ancora.

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