di Paolo Pera
La felicissima opera prima del faentino Michele Donati, Il paesaggio nuovo (Il Vicolo, 2021), dal sentimento civile – vicino alla classe operaia –, piange, nella sua cupa ironia, l’asservimento ormai totale del lavoratore al suo datore di lavoro («I lavoratori della cava / sono fieri / di appartenere alla multinazionale»), lavoro, talora, che viene elargito anche al prezzo della salute («Il pranzo a buffet / si è svolto in un’atmosfera serena / […] il menù gentilmente offerto / il gelato al gesso / ha riscosso entusiasmo bipartisan»). Si tratta infatti – nel poemetto che apre l’opus poetico di Donati –, com’è da lui stesso spiegato in una nota, di una cava di gesso che ha ormai completamente modificato le forme originarie del paesaggio su cui è venuta a insediarsi. Il canto del poeta qui sembra chiamare giustizia sia per la natura, drammaticamente violata, che per quelle anime “instupidite” nel lavoro che le obera e che le connota. Se il linguaggio di Donati tradisce un’ottima effervescenza espressiva, egualmente denota una crudezza descrittiva (e meditativa) che meglio fa soffermare sulle intense vampate liriche poste, come un fiore, in mezzo alle macerie di un’umanità che ha reso per lo più inesistente il suo rapporto con la natura; si può, per es., pensare a «La rosa di gesso parla / pochi sono in grado di capirla / / un esempio di formazione / del linguaggio / / questa rosa è stata argilla / ora è una rosa / è una rosa / per così dire / che era argilla / domani cosa / sarà la rosa?», rosa che potrebbe alludere sia alla bellezza di quel territorio deturpato che alla poesia stessa del Nostro, capace, come possiamo intuire, di spostarsi dal registro civile ad altri più lirici, come sono quelli dei suoi maestri, Rebora e Campana. Le altre due parti del volume ritraggono una serie di “paesaggi dell’anima”, con quello spleen che non dovrebbe mai mancare, e quindi, attraverso il mito platonico della caverna, un risveglio interiore che il nostro chiama, per l’appunto, paesaggio nuovo.