Recensione di Rossella Pretto
Alice Oswald, Nessuno, Edizioni ETS 2024
Si fa profondo e nascosto il debito di Alice Oswald per Omero, carsico.
Dopo aver scavato l’Iliade in Memorial e aver affrontato la classicità in Falling Awake, in Nessuno (curato e tradotto da Rossella Pretto per le Edizioni ETS 2024, pp. 172, euro 20), la poetessa inglese che ha da poco vinto il premio alla carriera Alma Mater Violani Landi compie la sua esplorazione svaporante all’interno dei gangli dell’Odissea.
E si fa più oscura, imprendibile.
L’intenzione di Oswald condensa, si aggruma, e il lettore si fa divinatore. O rabdomante. Cerca l’acqua in cui le storie di Oswald si mischiano e suonano. Come fossero sospese in un interim. Anzi, potremmo quasi dire, prendendo a prestito il Giulio Cesare shakespeariano, che «tra il concepire un’impresa terribile e metterla in atto, tutto l’intervallo è come un incubo o un sogno odioso (all the interim is / Like a phantasma or a hideous dream)».
È in questo senso che si può intraprendere la lettura di Nessuno con la guida, accanto, delle poche parole che aprono il volume e invitano a guardare ai versi del III libro dell’Odissea.
È lì che si racconta come Agamennone abbia messo una spia alle calcagna della moglie Clitennestra prima di partire per Troia. Un poeta, nello specifico. E un poeta che viene subito esiliato da Egisto – chi deve raccontare il vero cosa dirà non potendone sapere nulla? (Le Muse esiodee sanno dire molte menzogne simili al vero, anche se quel vero lo sanno cantare).
E Oswald prosegue ricordando che quando Agamennone tornò fu ucciso.
Non così Odisseo, che aveva una moglie fedele.
Oswald termina: «Questo poema vive nel torbido tra queste storie. La sua voce è spinta dal vento, erosa dall’acqua, come se qualcuno, prefiggendosi di cantare l’Odissea, fosse però trasportato con una barca a remi su un’isola petrosa e non scoprisse mai la fine del poema».
Siamo in quel torbido (un incubo o sogno odioso à la Shakespeare), in quella murkiness in cui le storie galleggiano, in cui il poeta immerge le mani per trarre la sua testa d’Orfeo e cucire il patchwork dei suoi racconti, dei versi.
Ma quei versi raccontano ancora qualcosa, rispetto a Memorial dove tutto era molto limpido, dove le cose avevano un nome e un cognome?
In Nessuno non v’è certezza, il contorno si perde, e il mare unfenced (senza confini) invade le terre dell’uomo e del poeta, la sua mente, erodendo la solidità delle cose… «su questa disintegrante certezza quest’acqua / qualsiasi cosa sia qualsiasi cosa tutto sia / sotto questi veli e veli della visione / che la luce taglia ma che rimane // intatta», ci dice Oswald.
Difficile penetrare più a fondo, vedere con chiarezza. È una percezione sfumata, al limite del reale. E allora leggere Nessuno come se fosse Memorial, in cui le brevi biografie dei guerrieri dell’Iliade pronti e proni alla morte erano il materiale con cui Oswald tesseva la sua tela, sarà un esercizio futile. Bisogna guardare a Omero, a quello che la poetessa ne fa, l’ingestione e la digestione che comporta. E poi il risultato: un poema dove tutte le figure dell’Odissea riappaiono sì, ma nella forma del fantasma. Perché un atto odioso si sta compiendo e in quell’interim la natura si ribella e mostra il suo lato d’ombra, la deformità, l’imprendibilità di ciò che siamo e di ciò che siamo stati – mente, cuore palpitante, azioni, gloria –: niente rimane sé stesso a lungo, si muta, si trasforma e convoglia nelle «cripte del mare / dove il polpo senz’ossa esiste solo nella metamorfosi infinita». Non c’è modo di prendere l’esistenza tra le mani, i destini di quegli uomini che hanno formato l’intelaiatura del nostro sistema simbolico o archetipale. Si può intuirne qualcosa tentando di decrittare quel passaggio, essendo tuttavia certi solo che sfugge.
Così dovrebbe essere anche il nostro giudizio sulle vicende altrui, a proposito di storie che non potremo mai comprendere e il cui portato, la cui devastante miseria non può essere estratta da quel fango, quella murkiness in cui è stata piombata per cause misteriosissime e insondabili, come in una tomba destinata a far vedere, a certi orari, solo un sogno di presenza o un miasma. Inutile e sterile esercizio quello di giudicare l’altro, le sue scelte, l’orrore di fronte a cui avrà piegato la testa facendo del mostro oro per la scrittura.
Mi riferisco alle vicissitudini dell’altra Alice, di colei che non si può più difendere e forse non vorrebbe, Alice Munro. Apro e chiudo parentesi. Quello che il poeta sa, quello che lo scrittore sa, più di ogni altra cosa al mondo, è la sua dedizione all’accoglimento di tutto il bene e di tutto, tutto il male che c’è nel mondo. Se ne fa attraversare e ne comprende troppo poco per essere misurato con gli strumenti della morale comune, bigotta e d’accatto. Lo accetta – o forse lo combatte pure, chissà – ma non può fare a meno di sentirsene schiantare le cellule, nell’ingiustizia di quell’orrore conradiano che non si ritrae nemmeno di fronte alla morte. E allora, cerchiamo di ascoltarli i poeti senza frapporre tra loro e noi il velo della nostra immensa ignoranza del male a cui in qualche modo loro hanno assistito, a cui hanno prestato il corpo e tutto l’essere.
Tornando quindi a Oswald, leggiamo…
Raccontami musa di questo antico passante
che si ritrovò alla deriva nello spazio infinito
con tutti i pianeti che gli volavano intorno ad anello
come tardi dèi
a tutti i tipi di luce e non luce assistette
fino a quando il suo occhio metallico si arrugginì
e ora non c’è ritorno né bordo né legge
nessun orizzonte né muro di porto o pietrisco frangiflutti
può scacciare questo informe dalla sua cecità
nonostante la grigia voce del mare lambendogli il cranio
anche a denti chiusi continui a sussurrare
Lasciamo che il mare sussurri spegnendo la bocca. Ascolta, direbbe Alice Oswald.
Lei lo fa.