In occasione dell'avvicinarsi del Centenario della nascita di Andrea Zanzotto (1921-2011) clanDestino inizia a pubblicare alcuni commenti a suoi testi. Navigheremo nella sua opera. Si tratta di un poeta che è sempre stato seguito da clanDestino (ricordo un suo biglietto di ringraziamento allorché, poco più che ventenne sulla rivista che ancora si chiamava “Forum-Quinta generazione” pubblicai una mia nota sulla sua poesia, oltre a vari incontri successivi).
Un poeta intenso e febbrile come la vita che ci interessa, e di cui ha saputo mostrare il retro dell'arazzo, attraverso una perlustrazione della vita del linguaggio, maestro in quella esperienza della poesia che lui stesso descrive, in un testo sulla traduzione come "lasciarsi andare nel mondo, anche lasciarsi gentilmente divorare e poi metabolizzare in altre forme".
A questo destino di adesione e abbandono al mondo, noi di clanDestino abbiamo sempre aderito, convinti, come diceva Mario Luzi, che una verità "intrepida" lo percorra e ci parli.
I primi commenti che presentiamo sono di alcuni partecipanti di un laboratorio di poesia che ho tenuto presso la scuola di scrittura “Macondo” nella loro sede di Pescara. Ne ringrazio gli autori e i curatori della Scuola, Peppe ed Elisa.
Davide Rondoni
Erika Di Felice
Postremi luoghi del Galateo in bosco
Quanta altezza ha raggiunto il silenzio
come per torridi fiati posati lungo ere
sui vaneggiamenti semivisibili di dossi e brughiere
in cui vaneggiai le storie infinite dei sangui
che di là stillarono fino ai rivi
più infimi delle mie menti dolenti
in un qui, futile-orrido qui
Quanto colmo è stato quell’indietreggiare nell’eterno
dopo vacue vittorie/sconfitte
quanto il deprivarsi l’addensarsi
d’una sorda sostanza tra crude fitte
nei qua-o-là percepiti da un’alba
chimicamente incerta, forse fatta di soda da lisciva,
sciva diluente
eppure abbagliante per un suo proprio fuori-occhio-lente
Silenzio a strati e strami
sul bosco lontano, ahi lontano in ogni direzione
via via vaporato da particolarità
uniche di abbandoni, di persistenze, umili –
non quiete, non-stasi, non-necessità, non nimbo
trash di presenza e d’immanenza
Non emanar più silenzio a tratti a scatti acceso
acceso malvolentieri al sublime
talvolta nauseasimile per colaticci di rime
non emanare, voce, non intimare sparendo
non dislocarti entro un proibito essere non proibirmi di essere
Sono tanti i termini utilizzati per definire la raccolta Galateo in bosco (1978), da cui è tratta questa poesia – iperletteraria, composta da materiali extraverbali, ricca di elementi metapoetici – e tutto indica un superamento di ciò che per consuetudine può intendersi la parola, ovvero la materia prima della poesia; un superamento verso il quale Zanzotto rivolgeva la sua ricerca. La sintesi, poi, viene fatta dal poeta stesso in un’intervista, quando nel chiarire l’assenza di un messaggio principale nei suoi componimenti, specifica che «il messaggio è la forma». Ed è questa, infatti, la protagonista di un insieme di versi che racconta di fatto una situazione di guerra che si potrebbe paragonare alle tante vissute da Ungaretti (grande sostenitore della prima raccolta di poesie di Zanzotto, Dietro il paesaggio) ma che viene descritta, appunto, in una forma del tutto differente.
La composizione della poesia è simmetrica, costituita da due strofe di undici versi intervallate da una parte centrale di quattro versi e l’uso misurato delle rime le conferisce un ritmo tutt’altro che incalzante, più simile a un mantice che si dilata e si restringe («torridi fiati posati lungo ere/ dossi e brughiere»; «vacue vittorie/ sconfitte/ crude fitte»; «sciva diluente/ fuori-occhio-lente»; «malvolentieri al sublime/ per colaticci di rime»); percezione alla quale concorre quella che si può definire un’“omonimia dei versi”, composti da parole che si richiamano tra loro («in un qui, futile-orrido qui»; «quanto colmo è stato quell’indietreggiare […] quanto il deprivarsi»; «forse fatta di soda da lisciva, sciva diluente»; «Silenzio […] sul bosco lontano, ahi lontano in ogni direzione»; «silenzio a tratti a scatti acceso, acceso malvolentieri»; «non emanar più silenzio […], non emanare, voce»).
Che il poeta conduca un discorso su un piano “altro” rispetto al racconto di un evento sembra confermato dalla quasi totale assenza di elementi descrittivi: l’ambientazione è quella del Montello, una collina sulla sponda destra del fiume Piave, che viene rappresentata al lettore attraverso tre unici elementi (dossi, brughiere e rivi), peraltro tutti concentrati nella prima strofa (solo un “bosco lontano” si trova nell’ultima strofa, ma con connotati ben differenti da un elemento di descrizione fisica).
In questo modo è il silenzio ad acquistare corpo e materia, assumendo connotati ora intangibili e metafisici (può essere un silenzio di morte «semivisibile» o un silenzio di pace di un «indietreggiare nell’eterno») ora estremamente corporei, diventando «a strati e strami» dopo un’alba «chimicamente incerta».
E se la forma è il messaggio primario, è impossibile non notare la mancanza di punti e la sporadica presenza delle virgole, che lasciano spazio a un uso per così dire “contemporaneo” dei segni di interpunzione (barra obliqua e trattini corti) utilizzati come base per la creazione di veri e propri neologismi (semivisibili; futile-orrido; vittorie/ sconfitte; qua-o-là; fuori-occhio-lente; nauseasimile), che nel naturale ritmo dei versi dialogano con piccoli elementi di disturbo, come forme verbali inusuali (i sangui che stillarono), richiami alla chimica (la soda da lisciva – elementi accostati impropriamente perché l’una solitamente esclude l’altra) e anglicismi (trash di presenza e d’immanenza), che si accendono come spot all’interno di una stanza.
Tuttavia non si tratta di forma svuotata di contenuto, quanto di contenuto che amplifica il suo significato (il qui, reso futile-orrido dalla guerra e dalle ragioni che la muovono; le vittorie/ sconfitte sono l’ibrido di qualcosa che non è mai nettamente positivo o negativo; i qua-o-là restituiscono la percezione di lampi, probabilmente quelli delle esplosioni; il fuori-occhio-lente richiama il senso di disorientamento dovuto all’abbagliamento; il sublime diventa nauseasimile quando evocato da una sorta di risveglio coatto).
E l’amplificazione avviene anche attraverso un ritmo intrinseco alle parole («le storie infinite dei sangui/ che di là stillarono fino ai rivi/ più infimi delle mie menti dolenti») che si scioglie in una sorta di canto verso la fine della poesia, quando il silenzio diventa «non quiete, non-stasi, non-necessità, non nimbo», nel momento in cui compare la voce, entità interlocutoria viva – opposta al silenzio protagonista della poesia – alla quale il poeta si rivolge in una sorta di preghiera, chiedendole di liberarsi da ogni sorta di coercizione e condizionamento, e quindi di liberare il poeta stesso, permettendogli di dar vita all’incanto di una poesia che parla di se stessa e si racconta, nella quale egli non desidera null’altro che ritrovarsi ed «essere».
Stefano Burattini
[Una poesia in una virgola]
Please: this pink iris (7)
Please: this hot drops (7)
“Please,” that harmonizes all (9)
Per favore: questo iris rosa (9)
Per favore: queste gocce calde (10)
“Per favore,” che tutto armonizza (10)
Da “HAIKU for a season | per una stagione”
Si tratta di una forma moderna di haiku, composto in lingua inglese e tradotto dal poeta stesso. Né l’originale né la traduzione conservano la struttura tradizionale dell’haiku livello metrico, pur conservandone le figure caratterizzanti (il kigo posto a fine del primo verso, il kireji a inizio ultimo). Tale scelta sembra radicare la poesia in parte della tradizione italiana e in particolare riconoscere un riferimento ad Ungaretti, nel quale lo stesso Zanzotto rintracciava un eco del genere poetico giapponese, riconoscendone sempre la forma libera.
Nel please iniziale si stabilisce già il contesto di dialogo, pur mantenendo nascosti gli attori di questo dialogo, ammesso che vi siano, eclissando l’Io poetico. Nel verso inglese si crea un’assonanza fatta di suoni delicati interrotti da sillabe più dure (Please: this pink iris), ondivaga, e il “this” successivo porta subito immediatezza, collocando il fiore nel presente e il dialogo in primavera, portando direttamente nel kigo (Pink iris). Si crea un gioco tra due contesti: quello relazionale (la delicatezza del please) e quello naturale, pink iris (delicatezza del fiore, resa a livello cromatico, e della stagione primaverile), che appare presente anche a livello sonoro. Nel secondo verso c’è un movimento verso l’apertura vocale di “hot drops” evocando un movimento emotivo, con l’impressione di qualcosa che si scioglie (hot drops sono forse lacrime?) resa anche dall’inserimento di un diverso modo sensoriale, quello termico, che al tempo stesso contribuisce a creare una variazione retrospettiva sul senso del “please” del secondo verso, evocando un tono diverso e potenzialmente un dialogo, una seconda voce, o uno spostamento dell’attenzione che continua a creare una condivisione di prospettive, come un dito che si sposta indicando.
Nel terzo verso è inserito il kireji (salto logico) reso attraverso l’impiego di virgolette in “Please”, realizzando un salto logico ma anche portando in una dimensione metatestuale e includendo non solo il significato ma la pausa resa nel resto del testo dai due punti, qui significata in forma di virgola. Di fatto questa affermazione è ricorsiva, essendo la sua stessa enunciazione la condizione di verità della stessa, e costituendo un riferimento alla armonia creata nel testo dalla ripetizione della stessa.
Il terzo è inoltre il verso più lungo in inglese e, in entrambe le traduzioni, quello che contiene la parola più lunga e al tempo stesso una considerazione sulla parola stessa, collocando al di fuori della scena dipinta prima e inducendo una riflessione su di essa, in questo portando ancora di più al suo interno, ottenendo l’effetto di rafforzare la significazione del dato sensoriale dei versi precedenti, che qui appare assente.
Nell’originale bisogna notare che a parte “please” e “harmonizes” tutte le parole sono monosillabe, contribuendo al ritmo della poesia, evocando la composizione in attimi. In italiano un elemento di sospensione è reso anche tramite lo spazio tra per e favore. Il passaggio in italiano colloca al termine di ciascun verso l’impressione più sensoriale (rosa, calde, armonizza), rispettando in questo la collocazione delle parole nel verso in inglese e contribuendo a creare una sinestesia che colora anche la parola più astratta, creando un contrappunto, a proposito, armonico rispetto ai “per favore” di apertura che ancora di più amplifica il gioco di assonanze semantiche e sensoriali del testo.
Antonio Spoletini
Così siamo
Dicevano, a Padova, “anch'io”
gli amici “l'ho conosciuto”.
E c'era il romorio d'un'acqua sporca
prossima, e d'una sporca fabbrica:
stupende nel silenzio.
Perché era notte. “Anch'io
l'ho conosciuto”.
Vitalmente ho pensato
a te che ora
non sei né soggetto né oggetto
né lingua usuale né gergo
né quiete né movimento
neppure il né che negava
e che per quanto s'affondino
gli occhi miei dentro la sua cruna
mai ti nega abbastanza
E così sia: ma io
credo con altrettanta
forza in tutto il mio nulla,
perciò non ti ho perduto
o, più ti perdo e più ti perdi,
più mi sei simile, più m'avvicini.
La poesia “Così siamo” è fatta di versi sciolti, che non presentano rime, non ha una struttura metrica precisa neanche nell’organizzazione del testo, che tuttavia, si presenta spaccato in due. Tale scelta risponde verosimilmente a una precisa esigenza di separare la prima parte dal resto del testo. In apertura il poeta descrive brevemente la scena nella quale si proferisce quell’ “Anch’io” pronunciato dagli amici “l’ho conosciuto”. Questa frase semplice collega tutti coloro − gli amici appunto − che in vita hanno avuto conoscenza diretta del defunto, ma metaforicamente anche, se non soprattutto, esperienza della comune condizione umana, che dà il titolo alla poesia: “Così siamo”, ovvero umani, fragili, mortali.
A questi, agli amici, si accosta il poeta nel ripetere il suo indisturbato, “Anch’io l’ho conosciuto”, non interrotto come quello degli altri, più diretto, più intimamente collegato al destinatario, quindi in un certo qual modo diverso e personale.
La breve descrizione fornita merita un pur sommario cenno, col “romorio” di acqua prossima e di una fabbrica, entrambe accomunate dall’essere sporche, che sono splendide nella notte padovana, perché essendo notte c’è silenzio. Sembra qui potersi toccare e vedere per differenza, la non descritta condizione del giorno di chiasso e di sporco, che, nonostante il permanere di quest’ultimo, la quiete della notte sublima radicalmente; quel paesaggio spiritualizzato diviene splendido.
La parte finale della prima strofa si apre con “Vitalmente” – si tratta di una manipolazione semantica tipica della sublimazione zanzottiana del significato della parola cioè il “significante” – dove il poeta, attraverso un complicato rapporto sintetizzato nel “e che per quanto s’affondino gli occhi miei dentro la sua cruna”, si misura con la profonda riflessione sulla condizione transitoria del padre, “né soggetto né oggetto né lingua usuale né gergo né quiete né movimento” che si specifica e si approfondisce nel “neppure il né che negava … mai ti nega abbastanza” che esplicita una condizione di negazione soggettiva. Non confermata e non palesemente smentita nel testo la possibilità che l’io e il tu, siano non due soggetti effettivamente contrapposti, ma che ci sia invece una specie di trasmutazione dell’io nel tu evocativo, che in altre composizioni si manifestano più visibilmente paralleli. Forse per questa via si esprime la coscienza di non perdita, di non distanza che trova compiuta esposizione nella separata parte finale, che pure inizia con un apertamente stridente “E così sia”.
Il poeta è assai scaltro, padroneggiando lo spazio della narrazione in maniera mirabile: separa fisicamente le strofe lasciando spazio, ma dando con “E così sia” l’impressione di unire in apparenza, qualcosa che invece intende con forza distinguere; ottiene così il risultato di isolare “E così sia” dal resto del testo, in questo modo indebolendone la valenza.
Questa locuzione cristiana è la massima espressione di accettazione del compiersi della volontà divina, cui il poeta contrappone nel modo sopra descritto quel “ma” avversativo del suo personale “io credo con altrettanta forza in tutto il mio nulla, perciò non ti ho perduto”. Un “ma io” che deflagra con forza dirompente, come una dichiarazione di guerra alla rassegnazione espressa da “E così sia” che immediatamente lo precede. C’è la persuasa coscienza che la condizione spirituale di presenza degli esseri umani, dipende dalla capacità di non perdersi e di non perderli; “più ti perdo e più ti perdi”, più il poeta resta in sintonia con la sua condizione di esistenza psichica, più riesce a non perdere il contatto col padre morto. Questo concetto, rafforzato da quello espresso in seconda persona singolare con “più mi sei simile, più m’avvicini”, lascia pensare possibile quel travaso dell’io nel tu evocativo operato dal poeta, consentendo di ipotizzare che quel “più ti perdo e più ti perdi” sia o possa essere rivolto a sé stesso, anche in considerazione della presenza di una poesia che non a caso reca proprio il titolo di “esistere psichicamente”.
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