“Midbar”, tra deserto e parola

di Gianfranco Lauretano

Raffaela Fazio, Midbar, Raffaelli editore, Rimini 2019

Una delle qualità che salta agli occhi della raccolta Midbar di Raffaela Fazio è la sua compattezza: compattezza di stile e di temi. Finalmente un libro, nel vero senso della parola, verrebbe da dire; l’esclamazione è conseguenza di una proliferazione, nel panorama attuale, di “raccolte” di poesie che, semplicemente, raccolgono un periodo, un’epoca della scrittura di un autore, congegnate poi abbastanza casualmente in un’unica opera. Si tratta di una specie di deriva moderna, che nulla ha imparato da certi maestri recenti, Caproni o Luzi, Bertolucci o Sereni. Coerente e costante è soprattutto l’atteggiamento dell’autrice nei confronti della sua ricerca. Il poeta cosciente sa sempre di non avere molto spazio, molte parole, neppure molto tempo. Raffaela Fazio ha fatto di questa indigenza una forza già da tempo: “Qualche rara bacca/ corti lampi di verde/ dovranno bastarti” affermava nel libro precedente, L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice, Milano 1918). Ciò tanto più vale in questo libro intitolato Midbar, titolo la cui scelta ci è spiegata dall’autrice in nota: “In ebraico il ‘deserto’ è detto ‘midbar’, che si scrive aggiungendo una sola lettera, la ‘mem’, a ‘dabar’, ‘parola’ (…). Il deserto, dunque, come luogo della parola”. Il deserto, potremmo aggiungere, luogo di privazione, arsura, scarsità di vita (forse vita nascosta, apparentemente assente), come luogo della parola, sorgente addirittura dal suo silenzio. Si vede come le competenze linguistico-professionali dell’autrice, anche eccellente traduttrice (Rilke, di recente), le consentono di utilizzare gli scarti fonematici che l’ebraico mette a disposizione, persino i suoi vuoti, per mantenere in filigrana il suo metodo, a cui ritorneremo. Basti per adesso la definizione generale che ne dà Massimo Morasso nell’introduzione, dove parla di “interrogazione sull’essenza trascendente della parola”; non poco intrigante è, qui, il termine “essenza”.

Le parole di Raffaela Fazio sono in effetti sapientemente distillate. Francesco Dalessandro ha molto ben rivelato, a proposito della raccolta precedente, che “l’autrice si affida a un dettato sobrio ma forte, a scansione decisa, fatta di versi scarni ed essenziali, diretti e precisi”; descrizione che vale ancora, segno che siamo di fronte a un’esperienza matura, a una voce che ha calibrato se stessa, raggiungendo la temperatura adatta allo scopo, che è il confronto costante, approfondito e serrato con nuclei semantici forti dell’Antico Testamento, quella parte della Bibbia che accomuna Ebraismo e Cristianesimo, la legge di cui nemmeno uno jota passerà.

Questo confronto è pienamente poetico. Non c’è traccia nelle poesie della Fazio di teologia raziocinante, né di ragionamenti sofistici sul contenuto dei testi sacri: potrebbe farlo, essendone pienamente edotta, ma diciamo che non sbaglia metodo. Come dovrebbe fare ogni poeta, decide di rimanere e rivivere attraverso le sue parole, così finemente centellinate, ciò che è vivo nel testo da cui prende avvio il nucleo tematico di Midbar. La poesia è sempre un avvenimento presente, anche se affonda la sua origine in testi scaturiti già da millenni; essa in più oggi rappresenta il metodo storico più efficace, in un’epoca in cui l’immanenza degli episodi della Bibbia nella memoria collettiva si va diluendo fino alla rarefazione estrema – e all’estrema ignoranza –, che così denuncia Morasso: “Lo spirito è forse uno degli ultimi tabù lessicali che sollevano nei neo-clairvoyants di ogni ordine e grado un insopprimibile sospetto”. Sulla scorta di questo libro viene quasi da pensare che la poesia, ritrovando l’antico compito dell’arte che Hegel rimpiangeva nella sua Estetica, possa essere come una specie di “Biblia pauperum” per contemporanei indigenti nella memoria, dove il valore aggiunto alla poesia stessa, che è un valore appunto estetico, rende il brivido del passaggio, per tramite del poeta, all’esperienza personale. La quale si pone soprattutto a livello di sogno, il terzo dell’esperienza cabalistica, “lo stadio che va oltre le necessità vitali rappresentate dal pane” e che “è un ponte tra l’inconscio e il reale”: “Quando la voce sogna/ riunisce/ il gregge dei suoi suoni/ e il tempo le obbedisce”.

E, a proposito di obbedienza, anche lo stile aderisce al movimento della poesia che è fondamentalmente un percorso di conoscenza-per-esperienza. Torna qui la sobrietà, l’essere scarno della parola stessa, del verso, del componimento, che non diminuisce mai e conferisce un’unità esemplare a questa opera, condotta fino al limite del vuoto: “Ma ancora più se saprai/ vedere il vuoto/ che ti sazia, il compenso/ nello spazio/ da cui liberi la mano”. L’oggetto del discorso, il protagonista di quello che Morasso individua come metodo dialogico, sta sempre al limite, sulla soglia, come dice uno dei testi più efficaci e più vicini al dispositivo messo in atto dall’autrice, Alle querce di Mamre. Mentre è nel formidabile trittico finale, Parlerò io, riecheggiante a tratti il Salmo 44, uno dei più desolati della Bibbia, che viene riassunta la posizione dell’autrice, divenuta qui davvero universale, capace di rispecchiare la domanda di senso e di giustizia di tutti: “Chi mente/ non vacilla./ Prospera il più forte/ e il gregge dell’iniquo/ non ha aborti”. Già, perché? Alla fine del percorso la mimesi è perfetta, anche linguisticamente e poeticamente; e accade così di toccare il vertice della durata di una tradizione, come altre volte nella nostra storia poetica recente quando il canto si fa prossimo all’inno veterotestamentario: si pensi a Mio fiume anche tu di Giuseppe Ungaretti o alla raccolta poetica postuma di Cesare Pavese. Il dialogo con l’essere che non si può neppure nominare, prossimo al deserto e al vuoto come al silenzio, sorprendentemente e in controtendenza rispetto alla modernità, non si interrompe neppure in queste condizioni. Anzi si risolve in un luogo che viene rovesciato, quella “morte/ che finisce/ dove al tuo sguardo il mio sguardo/ senza capire/ si unisce”.

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