di Giovanni Ibello
Non ero preparata è forse uno dei libri della vita per Melania Panico. Un libro che svuota, consuma e arrende. Anche in proiezione futura - ne discutevo proprio con l’autrice - sarà difficile immaginare, almeno nel breve periodo, un’altra prova editoriale. Questo è un libro che imporrà un lungo silenzio. L’opera ha in sé il pregio di saper individuare con esattezza il preciso confine che deve esserci tra biografia (che è sì necessaria ma è anche un pericolo) e universalità - se così si può dire - della parola poetica. Nella poesia della Panico si sente l’elemento biografico, ma anche l'autenticità di un dire universale. È un voler mettere a posto le cose del mondo. Non è un caso che in Non ero preparata si avverta un costante colloquio, un dialogo quasi ossessivo, con chi è assente. C’è la parola offerta a colui che manca, una parola che si offre al vuoto, una parola che vive di contraddizioni, una parola carnale e oracolare. Eppure Melania racconta una storia senza mistificazioni. È la storia di chi resiste, con fatica, a un declivio. Ed è proprio in questo offrirsi invano, è in questo crollo incipiente, che si intravede la bellezza… un concetto puro e semplice. Forse un destino irripetibile. È in questo gesto che si intravede una pietà struggente, che dovrebbe essere poi la massima ambizione di ogni poeta. Ho molto apprezzato questa voluta imprecisione. Penso a una poesia di Valerio Magrelli tratta da “Nature e venature”. Scrive il poeta romano: amo i gesti imprecisi perché dentro qualcosa balla. Mi piace dire che Melania, in questo, è stata coraggiosa… è stata temeraria. Mi piace dire che a dispetto di chi non era preparata, l’autrice non ha avuto la minima esitazione. È scesa a patti con l’assenza… con un’assenza cruciale e inevitabile.
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