di Gianfranco Lauretano
Mauro Ferrari, La spira, puntoacapo ed., Pasturana (AL), 2019
“Nel raggio le spire di fumo parevano seta” dice Cesare Pavese nel racconto “L’avventura”, ed è più che coerente che un altro autore piemontese ricorra allo stesso termine per parlare di un altro fumo e addirittura intitolare così il libro dedicato. È ciò che fa Mauro Ferrari ne La spira. In questo caso si tratta della spira di fumo che sale dall’Italsider/Ilva di Novi Ligure, la prima immagine evocata nel poemetto in sei canti che “sale dietro al cimitero/ e azzurra il cielo grigio/ salendo a pena per sfaldarsi in nulla”. Un’immagine splendida, che potremmo fruttuosamente commentare: i segni della morte e del nulla, il cimitero, l’azzurro della spira, unica nota positiva immediatamente disfatta nel grigio del cielo di una giornata piovosa: altrove nel poemetto il clima sottolineerà, ad esempio con la nebbia, la stessa impressione di dissolvenza. Già, dissolvenza di cosa? Di un ideale. Assieme al simbolo della spira infatti, poco dopo, Ferrari sosta chiedendosi (e non sarà l’ultima volta che questa domanda, con identiche parole, ritorna): “Che cosa resta del caparbio cavo d’illusioni/ e di visioni che ancorava l’utopia alla vita?”. Nella dedica, d’altronde, ci aveva chiaramente messo sul binario giusto: Ai compagni della mia generazione. Alle utopie. La parola “compagni” è usata con perfetta intenzione: l’utopia è quella del riscatto sociale di matrice marxista, adottata dalle tre generazioni, dice Ferrari, nate dal dopoguerra fino agli ultimi anni Cinquanta e i primi Sessanta, in parte vittoriosa “a caro prezzo”, poi dissipata come la spira nel cielo di Novi tra i flutti del riflusso e l’avvento della società dei consumi, con dispersione delle sorti magnifiche e progressive e quegli “ideali che sono invece pian piano sfumati”.
È un canto triste e profondo, che sfiora l’elegia in più tratti, pur rimanendo asciutto nel sentimento. La scrittura di Mauro Ferrari, affinata alla lirica ma già dalle origini auto-introdottasi all’epica, al racconto in versi, raggiunge qui una sintesi espressiva esemplare. Quando l’immagine si avvicina a un apice emozionale, il pensiero la adotta per riflettere con “affetto, rabbia e molta ingenuità” sulle vicende delle generazioni alla ribalta del suo palcoscenico; allo stesso modo “le storie e la Storia” sono sostenute da un uso dell’immagine che non fa nessuna fatica a toccare l’allegoria, come quella dei ruderi di abitazioni e di fabbriche che emergono dai laghi artificiali nei periodi di secca in cui i “fiumi di pianura […]/ incedono maestosi e putridi,/ boriosi e inaffidabili”; tutta un’orografia, un’archeologia industriale, una topografia è chiamata in causa a definire il quadro di una geografia e un’archeologia ideologica.
Molti lavori artistici, di tante discipline, hanno cantato il rimpianto e la caduta dell’ideale; ben poche con tanta sintesi formale e poesia quanto La spira di Mauro Ferrari, un’opera di grande ritmo, pulizia e pregnanza delle immagini, essenzialità della riflessione. E ammissioni. Chissà se Ferrari si è accorto che in un verso del primo canto, anzi in un mezzo verso, c’è la spiegazione del mortifero passaggio dall’ideale comunista al trionfo consumista: “detratta ogni metafisica” dice il poeta nell’atto di mettersi poeticamente in ascolto di quel “fondo insopprimibile/ di vita solida che ci respira intorno”. Egli è molto bravo a raccontare quel mortifero passaggio: “E poi/ liberi tutti dopo il piombo e il sangue,/ trascinati al largo dal Riflusso/ di sorti non magnifiche – l’ottobre/ gaio e gelido degli anni Ottanta/ dopo una lunga estate calda,/ la paccottiglia scintillante/ spacciata per modernità ineluttabile./ In quella palude d’anni/ si era fuori moda a non credere,/ a non sentirsi radical-chic dall’anima griffata”.
Ciò che si intende dire è che la continuità tra gli ideali rimpianti e quelli vittoriosi sta nella condivisione della detrazione della metafisica. D’altronde Marx è sempre stato geniale nell’individuare la metamorfosi della metafisica, di fronte ha riflettuto fruttuosamente, denunciando ad esempio la merce come ultimo simulacro della società capitalista e la religione, quando asservita al potere e ai valori borghesi, come oppio dei popoli. Ciò che ne ha ricavato, il materialismo, la detrazione della metafisica, è stato un testimone raccolto più che volentieri dal consumismo e, come dice il post-marxista Debord, dalla società dello spettacolo, la cui unica preoccupazione è che la libertà dell’uomo sia libertà di comprare questa o quella merce. Così una generazione ha sottratto il testimone all’altra: “La Storia noi non siamo/ e gridano le strade nomi vuoti”. È sottraendo quel vuoto che gli uomini nuovi, quei radical-chic che sono ancora oggi comunque “di sinistra”, ne continuano l’immanenza assoluta, senza altro cielo che quello in cui la spira si dissolve: “Se scendi il rettilineo che da Novi/ punta ai monti, la vedi,/ la fabbrica che si raffredda/ come noi, la spira ben visibile/ di ciò che sale in nulla e si disperde”.
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