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Mathias Enard, “Ultimo discorso alla società proustiana di Barcellona”, edizioni e/o

di Edoardo Sant’Elia

   Vagabondaggi intellettuali e fisici, luoghi da sfiorare, da annusare, da vivere nello spazio di una mattina trascorsa al caffe o nel corso di lunghe, lente giornate; luoghi che si confondono, che si sovrappongono ai corpi delle donne amate, dei libri letti, degli autori preferiti.

   Scherza con la memoria, Mathias Enard, e non teme di scottarsi: intrecciando le suggestioni le moltiplica coscientemente ma la nebbia poetica in cui sono avvolte è una polverina penetrabile che consente allo sguardo del lettore, per attimi, per squarci, di non smarrirsi, di ritrovare un senso nel percorso. Del resto l’autore francese, anche narratore e traduttore, sin dall’inizio, dal primo brano, Beirut, mette le carte in tavola: “…ho un libro da due soldi / che mi racconta storie di fantasmi / di marinai e dell’Asia centrale / la mia ombra / una leggera tosse / e un po’ di soldi presi in prestito…”. Forte di questo bagaglio, il viaggio ha inizio: un viaggio evocativo ma concreto, l’eco dei passi del poeta, la presa sui paesaggi e sui personaggi è reale nella sua fantasmaticità. È reale Beirut, “dal gusto di timo e copertoni bruciati”, città attraversata dalla guerra, dove “il sole furioso seccava il sangue”; ed è altrettanto reale la pianura polacca, in cui “…il biancore della neve non nasconde né la pena delle betulle / né il dolore dei pini / rattristati dalla loro linfa, / carica di cenere”. Nei Balcani “Il tassista che ci ha fatti salire / fino al ristorante del Parco principesco / teneva una pistola nel cruscotto. / È un ricordo, diceva, / delle fabbriche iugoslave…”; in Russia, invece, “I libri cadono come bacche sterili nella notte siberiana dal sonno scandito, sognando sempre un altrove”.

   Libri che rappresentano qui il punto di non ritorno. Nel brano finale, infatti, che dà il titolo al volume, Ultimo discorso alla società proustiana di Barcellona, Enard si misura con “la poetica dei costretti a letto”, ovvero di coloro che combattevano la malattia con la creatività, lotta quotidiana condotta con energia inesausta. Di questi autori, naturalmente, il campione è Marcel Proust, il grande infermo, il recluso che usciva dal proprio bozzolo, dalla propria stanza, solo per frequentare i migliori salotti di Parigi, per partecipare ai riti mondani più esclusivi, per cogliere in pieno il gusto delle conversazioni frivole, la nota falsa, la nota ridicola, le risate delle dame, i loro crucci, le pose degli elegantoni, le bizzarrie comunque logiche della moda, tutti quei dettagli capaci di restituire l’aura, il profumo, l’essenza del suo mondo: “a Parigi su boulevard Haussmann / a Parigi in rue Hamelin / Proust ha freddo / Proust è il nemico del riscaldamento centralizzato / Proust si mummifica di plaid e coperte / è la sua pelle, la sua compagnia / i suoi ricordi / imposte serrate, tende tirate / la sua vestaglia pesa tremila pagine / il suo testamento pesa tremila pagine / la sua vita pondera il suo peso in baffi e peli di barba”.

   Mondi reali e mondi di carta: il gioco è sempre lo stesso. I luoghi “…se ne vanno come Alessandria / nella poesia di Kavafis”, eppure qualcosa ancora li trattiene, qualcosa impedisce loro di svanire completamente, di scivolare in quella terra di nessuno inaccessibile ai piaceri della memoria. Tocca allo scrittore, allora, farsi carico dei ricordi di tutti, filtrandoli attraverso la sua sensibilità; un filtro umano, dunque fallace, che tuttavia nella sua imperfezione rimette in circolo la fantasia e impedisce di dimenticare, suscitando anzi altre fantasie, altri ricordi.

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