Nel recente intervento di Milo De Angelis pubblicato su questa rivista, l’autore scrive, sorprendentemente, che il mare e Dio non hanno nutrito la sua poesia.
Nella recensione all’antologia La consolazione della poesia, qui pubblicata, Rondoni suggerisce che “occorrerebbe partire da prodigio del vivente, dallo stupore rinnovato per l’essere”.
Al centro dell’ultimo libro di Pietro Federico, Mare aperto (Nino Aragno editore, con una nota di Umberto Piersanti) ci sono proprio il mare, Dio e lo stupore.
Nella recensione al suo primo libro, più di dieci anni fa, avevo scritto che Pietro era un poeta felice, di una felicità dovuta alla giovinezza. Ora è arrivata la maturità: la famiglia, la responsabilità. È cominciata una nuova pensosità, si sono allargati gli orizzonti, fino all’America. Ha attraversato il mare aperto, lo sta attraversando, con una ragazza americana, sua moglie, e una bambina di nome Florence.
Una sezione del libro, Il primo mattino del mondo, è scritta in inglese. Dalla poesia che dà il nome alla sezione, nella traduzione di Antonella Berni.
Come bambini che disegnano piano, tratto dopo tratto,
l’alba sale all’orizzonte e il buio cede (…)
Tua madre dorme e i suoi capelli
e l’aria, l’albero di Natale,
le cime degli alberi fuori, e me
siamo tutti mossi da qualcosa di più che dal vento,
dal vento della luce.
Più niente è non nato, o ferito.
E io sono Adamo di fronte al mondo.
Sorge l’alba, il poeta guarda la moglie incinta, gli alberi, il vento, e si sente come Adamo, si sente stupito: tutto gli è dato, tutto è salvato.
Commuove lo sguardo dell’autore sulla donna amata.
Ti guardo dalla piazza.
Sei affacciata a una terrazza panoramica.
Ti si raduna sulla fronte una luce astronomica.
La tua anima sembra l’unica
come una polena sulla prua.
(…) Guardi negli anni e nella luce.
Dimmi che non è un caso
che sei tu a voler tenere il viso in quell’incanto
il mento alto, pronto all’avvistamento
e gli occhi in visione o in attesa
fondi nei lampi delle esplosioni
(…) dimmi che senti di non esserti arresa
d’essere divina
che la ringhiera curva del balcone
è il golfo teso ad arco tra le dita
che hai da tirare una sola freccia
una sola vita
che stai cercando ancora
breccia da mirare o feritoia.
(…)
Solo a te potrei credere come a Giovanna D’Arco
come a un generale, a un santo.
Alla figlia che deve nascere:
Tra ventisette giorni
nascerai
(…)
chi sono io per dire sì
o per chiamarti attraverso la carne di tua madre,
per chiamarti? Il tuo nome sei tu,
non un disegno o una parola o un gesto,
non una linea o un suono,
è il tuo corpo che cresce nel buio
a qualche centimetro dalla luce,
qualcosa che abbiamo trovato.
(traduzione di A. Berni)
E dopo che Florence è nata:
Ti sbracci come un naufrago.
(…) Guardo dove guardi, dove io vedo soltanto
come il mare sia impassibile alla pioggia
al nostro amore che è la luce che si dice e non avviene
e vedo che bassa marea, che arso germoglio di rose
sia l’idea che ho del tuo bene
quando dico che lo voglio
e ti penso a braccia chiuse
su di noi, le mani piene.
Siamo naufraghi, siamo costretti a solcare il mare, ma c’è un punto da guardare, un amore, un antico e semplice voler bene, che ci riempie.
Pietro può affermare questa bella verità perché ha un padre, e una madre. Ha i suoi genitori come primi maestri. Nella poesia a loro dedicata scrive: Ricorderò per sempre come vi guardate. E in una poesia per suo padre, che “non ha bisogno di voltarsi per guardarlo”, che viene da un’isola (è siciliano) ed “è sopravvissuto all’embargo di un intero continente”, può dire:
Sul finire di ogni cosa
le nostre anime crocifisse e ladre
bivaccheranno ancora intorno al vivo
e all’invisibile poesia
e Dio sarà ancora il padre
della nostra malinconia.