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Marina Cvetaeva, “La principessa guerriera”, Sandro Teti Editore

di Edoardo Sant’Elia

   Lo riteneva la sua “cosa migliore”. Una fiaba in versi (o un poema?) strutturato ricalcando tempi e modi, personaggi e metri della tradizione folclorica russa, tradizione vasta e profonda, un vero e proprio serbatoio di miti e leggende.

   Intendeva collocarsi, la Cvetaeva, dentro e fuori questo palcoscenico in continuo movimento. La principessa guerriera – reso in prima traduzione italiana da Marilena Rea per Sandro Teti Editore – vive di questa continua oscillazione tra uno sfondo cristallizzato con pittorica esattezza, con colori densi e netti, e i personaggi che si sollevano da questo sfondo, con languore o con protervia, per affermare la loro singolarità, il loro essere in qualche modo, all’interno di quella tradizione favolistica, padroni di sé stessi. Si dibattono, questi personaggi, per ottenere gli scopi loro assegnati: uno Zar dispotico e avvinazzato cerca nell’autodistruzione il senso del proprio ruolo; la Zarina sposata in seconde nozze tenta di concupire lo Zarevic, il figlio dello Zar, ossessione lasciva cui tutto sacrifica; lo Zarevic, pallido fanciullo, sfoga la propria ignavia dedicandosi per intero al suo strumento musicale, la gusla; e poi la principessa guerriera, il personaggio chiave, eroe epico incarnato nel corpo di una gigantesca amazzone che ovunque declina il rosso: rossi i capelli riccioluti, rosso il padiglione dove riposa ed il palazzo in cui vive, rosso il Vascello di Fuoco su cui si muove.

   Le notti e gli incontri si susseguono, in un alternarsi vorticoso di azioni a lungo concepite ma dall’esito puntualmente impreveduto e di sentimenti che scelgono la strada più tortuosa per esprimersi. Di là comunque da ogni accadimento, ciò che avvince, ciò che provoca scintille è l’adesione empatica ad un universo fantastico reso nei suoi sapori, nei suoi odori, nella sua melodia: “L’alba mi ha impresso un cerchio, / che brucia rosso, intenso. / C’è una pietra per il palazzo, /c’è una sposa per il ragazzo! // Lei ascoltava questo canto / (era come gustare una mela!), / captava il suono soave / (era come assaggiare la birra!)”. Un intero mondo rivive, con candore suggestivo ma senza illusioni, senza arcaismi, nei versi della Cvetaeva, che scrisse l’opera negli anni tumultuosi della guerra civile, prima di partire per l’esilio; un mondo richiamato in vita, che tuttavia si offre nella distanza, non cede, consapevolmente, al richiamo della poetessa: “Non è una nuvola fresca / che asperge di pioggia il lino: / è l’amata – che sull’amico / spruzza, schizza l’acqua, / ma lui non si sveglia. // Sul volto suo di cera, / come nugolo d’argento, / come argentee lacrimucce, / per il volto suo di cera, / lungo le gote a rivoli / scorrono luminosi fili”. Fili ingarbugliati eppure resistenti che congiungono la dimensione dell’antico, quel setaccio metaforico che filtra figure e situazioni tipiche, e la dimensione del contemporaneo, con le urgenze della Storia, con la comparsa di un popolo che, tanto alla fine della fiaba quanto nella realtà degli anni Venti dello scorso secolo, si ribella e invade il palazzo, mettendo a morte il proprio Zar.

   Ma anche gli altri personaggi conosceranno un tragico destino. Così come la loro burattinaia, che nel 1941 finirà per togliersi la vita, sola e dimenticata, in un capanno della campagna russa. E tuttavia, simile alla sua principessa guerriera, resta donna di fuoco, Marina, come intuisce con partecipe solidarietà Monica Guerritore, donna di teatro, che firma la postfazione: “Marina Cvetaeva non è un fuoco – ne è la radice, è un fuoco di cristallo”.

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