Maria Marchesi la poetessa senza volto?

Ecco la postfazione di Gabriella Montanari a “Non son più mia” (white fly press  –  info@whiteflypress.com ) 
 

UNA, NESSUNA, REDIVIVA

di

Gabriella Montanari

Sin dal nostro primo incontro, tutto quello che ha avuto a che fare con il mare ha sempre saputo di buono. Pertanto, il rendez-vous con la poesia di Maria Marchesi, avvenuto davanti a una finestra spalancata sullo Ionio, non poteva che essere presago di bellezze a venire.
È estate, la mia prima nella terra degli avi misconosciuti. La mezzanotte passata da una manciata di minuti. Nel cortile un gallo si danna, per poco non si strozza pur di averla vinta sul silenzio. Davanti ai miei occhi in escandescenza, gli scaffali di una risorta Alessandria. Una mano esperta mette nella mia un paio di volumetti anonimi, senz’alcuna velleità estetica. Solo azzurro. Solo arancio. Colori assoluti su cui si staglia il nero di un nome senza eco. Maria Marchesi. L’occhio dell’ala. Maria Marchesi. Evitare il contatto con la luce. Un clin d’oeil a Celan e un altro alla posologia farmaceutica. Promette bene, mi dico, e do inizio alla grande abbuffata. Bastano alcuni morsi a quella carne travestita da versi per rendermi conto che la luccicanza di certa poesia non la si può cercare. È lei, con le sue ragioni, a farsi snidare. E abbagliare.

Quello con Maria non è un incontro mistico, un’epifania letteraria. Più scorro le pagine, più percepisco che, nell’immobilismo della cellulosa, scorrono generazioni di sangue poetico finalmente purificato. Immagini che vivono di vita propria.Metafore uscite dalla bocca di una bambina dottissima a cui piace inzaccherarsi le dita col fango originario. Un mondo recintato in cui le parole si aggirano come fiere, indomabili perché decise a non estinguersi, a lasciare impronte di fuoco sull’acqua. Mi sento sballottata in una dimensione in bilico tra le viscere e l’empireo.

Maria Marchesi. Quasi la odio per quella sua potenza innocente che non lascia scampo. Provo desiderio delle sue parole e rabbia nel desiderarle. Perché lei sì?Non posso fargliene una colpa, ma la strega mi ha fatto cadere a picco nel suo paiolo di malie senza tempo. Come si fa a non scendere ancora più giù, in cerca del fondo?

Fatto sta che, da quella sera, la mia visione della poesia non è stata più la stessa e l’embrione di un’ossessione ha iniziato a prendere forma. Un cruccio più che un capriccio. La fregola di ancorare alla terra, alla storia e alla vita versi così materici eppur capaci di voli pindarici.

Chiedo, prima con nonchalance, poi con indisponente insistenza. Le risposte sono vaghe, lasciano in bocca un’acquolina di incognita da mettere a nudo, di mistero da sverginare. Una sorta di missione? Di certo il bisogno di soddisfare la mia sete e forse quella di qualche altro beduino incappato, più o meno per caso, nell’oasi piantata da una donna senza forma nel bel mezzo dell’attuale deserto poetico. Nessuno sa niente, se non quello che i versi stessi vogliono darci da bere. Nessuno si accanisce per dare un colore d’occhi o di capelli a quei tormenti. Nemmeno dopo che la Marchesi vince, ex equo, con L’occhio dell’ala, l’edizione del 2004 del premio Viareggio, sezione Poesia. Premio del resto mai ritirato, né di persona, né tramite delega.Ai giurati di allora la faccenda appare alquanto ingarbugliata. La poetessa verrà. No, non verrà. Nessuno l’ha mai vista, nessuno sa chi sia, non ha un recapito, impossibile rintracciarla. Hanno l’impressione di essere presi per i fondelli, ma ciò non basta a spronarli ad afferrare la vanga e scavare più a fondo. Di certo perché, comunque, il libro dellapseudo-poetessa fantasma quel riconoscimento lo merita tutto.

Il seguito, bene o male, lo si conosce. Una pioggia di recensioni, articoli, studi. Scrittori, poeti e critici “del giro che conta” l’hanno letta ed elogiata, ma è stato come gettarle un osso per incoraggiarla a continuare a sfornare manicaretti, senza però mai invitarla a sedersi alla loro tavola. Omertà letteraria collettiva?Paura di essere scalzati dal podio autoreferenziale? Allora tutti a ubbidirle, come scolaretti smidollati, anzi, a prendere la palla al balzo: “Vorrei però essere letta per la mia poesia e non per le vicende della mia vita” (L’occhio dell’ala, Premessa dell’autrice). Come si fa, mi chiedo, come si fa a divorare un arrosto che si scioglie in bocca senza nemmeno domandarsi di che diavolo di carne sia fatto? Io so che certa poesia ha un viso capace di scrivere anche solo con l’inclinazione dello sguardo, con l’impronta degli anni, coi belati. Certa poesia è inscindibile dai muscoli, dalla pelle e dalle interiora che le consentono di diventare umana. Certe menti non sono di questa terra, indaffarata a espletare funzioni più o meno vitali. Ecco, dare un volto e una vicenda a una mente, più che a una poetessa, perché mi facesse compagnia nelle solitudini indotte. Questo ho cercato. E non l’ho trovato. Allora, mi sono addomesticata anch’io al silenzio, ho messo a tacere le termiti che mi rosicavano il lobo morboso della curiosità. E ci ho dormito sopra, ma sempre con quell’occhio dell’ala sbarrato sul cuscino…

Fin quando, una sera di alcuni mesi fa, a poca distanza dal mare (questa volta il mio, l’Adriatico che sa di fritto al cartoccio), sono nuovi versi con lo stesso nome a bussare alla porta dell’editore che nelfrattempo sono diventata. È quella stessa mano esperta a porgermeli come un fagotto prezioso che non merita la soglia di un orfanotrofio. “Gli ultimi, inediti, di Maria”.Chiedono di uscire al gran giorno. E dove stavano nascosti?

Già, perché intanto Maria Marchesi è morta. Da quasi tre anni (gennaio 2012), morta e sepolta a Roma, mi si dice. Solo che all’Ufficio Decessi non risulta, da nessuna parte, in nessun loculo, in nessun vaso di terracotta della capitale. Ah, avrebbero riportato le sue ceneri in Friuli? Perché, stando a quanto riportato nella sua prima raccolta edita, Maria sarebbe nata in Veneto da padre friulano e madre lombarda. Da qualche parte ho annotato una data di nascita. 1925, agosto. Dove, non si sa, e il Veneto non è una pozzanghera. Faccio un passo indietro. La Marchesi, in un paio di componimenti, fa espliciti riferimenti all’ospedale psichiatrico romano in cui sarebbe stata a lungo ricoverata e dove avrebbe visto la luce buona parte della sua produzione poetica: “Santa Maria è un luogo/ così nascosto che tutti fanno fatica a trovarlo” (p. 106, L’occhio dell’ala); “Santa Maria è come una grande bara/ col raso al posto giusto e il coperchio/ pronto a scivolare” (p. 110, ibidem). Santa Maria della Pietà, dunque… E santo google. Un paio di clic e su una schermata appare quel che è diventato oggi il vecchio manicomio, definitivamente chiuso nel 1999. Il padiglione 6 ospita il Museo Laboratorio della Mente. Vi è un archivio informatizzato delle cartelle cliniche, inventoriate fino al 1978 (anno dell’entrata in vigore della Legge Basaglia). Maria Marchesi. Marchesi Maria. Niente. Maria Marchesi, 1925, Veneto. Niente. Però… un attimo… 24 agosto 1925, San Stino di Livenza (VE), MARIA MARCHESIN. Che mi venga un colpo!

Il ricovero, spontaneo, risale alla prima metà degli anni ’70. Dopo solamente un mese la donna viene dimessa perché considerata guarita dallo stato depressivo. Non risulta alcun domicilio a Roma, uscita da Santa Maria ritorna al paese.

La conferma dell’identità di Maria Marchesin arriva dall’Ufficio Anagrafe del comune di San Stino di Livenza. La donna, figlia di genitori entrambi veneti, si sposa all’età di 17 anni e ha quattro figli. La famiglia si trasferisce a varie riprese, per lo più nella provincia di Varese. È un’impresa inseguire la Marchesin nei continui spostamenti a cui pone fine solo la morte, avvenuta nell’Ospedale S. Antonio Abate di Gallarate nel gennaio del 1978. Date e conti non tornano, se non vagamente. Chi è questa donna? Cosa ha a che fare con la quasi omonima Marchesi? Scatta la caccia ai figli, un vero e proprio percorso a ostacoli. Il primo scovato è l’ultimo dei quattro. Contatto telefonicamente sia lui che una delle due sorelle.Sorpresi, diffidenti. Riluttanti a parlare della madre di cui sembrano ricordare ben poche cose. Confermano però il breve ricovero a Roma, a Santa Maria della Pietà, a metà degli anni ’70. Ma non era mica la prima volta… Maria era stata anche in manicomio a Varese (l’attuale Ospedale neurologico provinciale), all’inizio degli anni ’50 e alla fine del decennio successivo. Depressione? chiedo. Allora non la si chiamava così. La madre era entrata in ospedale psichiatrico per “esaurimento” che, per la gente del paese, signi- ficava essere malati di mente. Da ragazzina Maria era rimasta traumatizzata dalla guerra e dai bombardamenti. E di certo aveva influito sulla sua fragilità mentale anche la difficile situazione economica in cui viveva la famiglia. La ricordano molto dolce, madisturbata. “Povera”, la chiamano. Ma era una donna istruita? Scriveva poesie? La loro non è un’esplicita risata, forse solo per il rispetto che accompagna il ricordo. No, aveva al massimo la quarta o quinta elementare. Ma quali studi classici! Non aveva mai scritto poesie, non ne sarebbe stata capace. Ed era bella? “Forse come noi tutti, da giovani”. Se l’è portata via un “brutto male”, a 53 anni. È tutto quello che riesco a sapere. “La chiudiamo qui!” Le mie domande li infastidiscono, si fanno sospettosi, non capiscono dove voglia arrivare. In effetti… Se tentassi di contattare il terzo figlio, farei un buco nell’acqua, di certo i fratelli lo avranno messo in guardia. Decido di coglierlo di sorpresa, piombandogli in casa senza preavviso.È intimidito, suda molto. All’inizio quasi nega che Maria Marchesin fosse sua madre, come se il padre avesse avuto un’altra moglie. Cerco di metterlo a suo agio, ma continua a sudare, molto. Dice di ricordare poco di quegli anni, ma non ha dimenticato di quando, non ancora ventenne, era andato a Roma in treno per riportare a casa la madre appena dimessa da Santa Maria. Secondo lui non era matta, si era ricoverata di sua spontanea volontà. Voleva fare un dispetto alla famiglia con cui era in lite per questioni di proprietà o eredità. Ma perché Roma?E a cosa erano dovuti i vari trasferimenti? Maria faceva le pulizie nelle case di famiglie benestanti. Andava dove la chiamavano e a volte vi restava qualche mese. Se la ricorda piccola di statura, non molto robusta, bruna.Da qualche parte deve avere delle foto, anche del matrimonio. Ci stringiamo la mano dopo un caffè corretto preso al bar del paese, dove gli avventori ci osservano con una curiosità palpabile. Mentre mi avvio verso l’auto mi arriva dritto all’orecchio il suo sospiro di sollievo.

Rientro con risposte, certo, ma anche domande a cui questi interlocutori non possono rispondere. Prima fra tutte: chi, allora? E perché?

Qui non siamo di fronte a un semplice caso di uso di pseudonimo. Queste due donne, una esistita ma incapace di scrivere, l’altra probabilmente mai esistita ma della quale restano versi di rara bellezza, in qualche modo si sono incrociate. Se non fisicamente, per lo meno nell’immaginario, nella mente, nella scrittura di un terzo. Roma e Santa Maria della Pietà sono forse il punto d’intersezione. Va bene le coincidenze, ma qui pare che il destino abbia voluto sottrarre spezzoni di un’identità reale per innestarli in una figura che prende corpo solo attraverso le parole. Del resto, il terreno delle pagine scritte dalla stessa Marchesi è seminato d’indizi. Non sarebbe bastato ascoltarla? Un primo accenno velato è già ne L’occhio dell’ala (“Gli faccio notare che io sono appena una parola/ un indizio di vita, una cicala sbandata/ ch’è stata scambiata per formica”, p. 103), poi le allusioni si fanno sempre più esplicite in Evitare il contatto con la luce (“Io sono morta e vivo nella carta/ nemmeno nel ricordo di qualcuno, nella carta/ e muoia la semantica con tutti i filistei”, p. 70; “Non io/ non posso essere io quella/ Quella è una fanciulla con le mani/ e con due piedi che può adoperare/ Io sono una finzione messa qui per gioco/ un burattino con cui far le prove”, p. 84; “Tutti dicono: la vita! La vita!/ E io non sono riuscita/ mai a incontrarla/ Ma c’è? Esiste? Dove vive?/ Si nasconde tra la rugiada dei mughetti/ o è una farfalla perversa che fa piroette/ e spinge nelle cloache/ chi si ferma a guardarla?/ Sa riconoscere? Perché non mi riconosce?/ Quando dirà di avermi riconosciuta/ quando mi certificherà che esisto?” p. 126), sino ad arrivarealla domanda diretta rivolta al lettore di Non sono più mia: “Non domandatemi chi sono/ c’è qualcosa del vostro odio in me/ qualcosa/ della vostra indifferenza…” (p. 16)

E quello stesso lettore, dopo aver appreso della mente e della vicenda che si celano dietro i versi di due raccolte poetiche attribuite a una certa Maria Marchesi, si starà forse chiedendo perché mai pubblicare anche questa silloge di inediti, pur essendo al corrente dei tanti se, ma, forse… Beh, come sbarazzarsi di una tale patata bollente? Se anche una poetessa di nome Maria Marchesi non fosse mai esistita, questi e gli altri suoi versi lo sono. E urlano a pieni polmoni perché non li si faccia morire. Ci è sembrato di cogliere un appello, per quanto anagraficamente anonimo, a chiudere il cerchio di una storia poetica da “romanzo”.

Se l’appello era piuttosto una celata (ma neanche troppo) richiesta di smascheramento, speriamo aver aiutato qualcuno a liberarsi da un fardello solitario divenuto sin troppo pesante. Se si è trattato di uno scherzo indirizzato ai circoli di poeti, letterati e critici, ci complimentiamo per la buona riuscita.

La penna dietro le tre raccolte è senz’altro la stessa ma ha dato prova di sapersi evolvere negli anni, pur mantenendo un’impronta inconfondibile. Un marchio di fabbrica capace di sfumature. Nella prima raccolta Maria è immaginifica, lirico-terrena, potentemente naive; nella seconda saltella tra ironia del domestico e ritorno ai classici, gioca col linguaggio, fa sfoggio di erudizione; in questa terza e ultima raccolta la rabbia la fa da padrona, vigono l’irriverenza e il disprezzo. Meno lirismo, forse, più terra, più realtà in cui calarsi.

Rivelando quanto sinora rimasto sotto la sabbia, abbiamo svolto il nostro ruolo di editori scrupolosi e corretti nei confronti del lettore che ci fa dono della sua fiducia. Deontologicamente parlando, instillando il dubbio ci siamo coperti le spalle, e va detto. Ma riteniamo che questa scrittura poetica, dai lineamenti così marcati, debba continuare a esistere indissolubilmente associata al nome di Maria Marchesi.

Maria Marchesi poetessa nascosta, Maria Marchesi pseudonimo, Maria Marchesi identità rubata. Poco importa. Quello che conta è non farla finire nel nulla da dove è arrivata. Una cometa. Un passaggio su terra del quale essere grati a qualcuno. Del resto lei già lo aveva previsto: “Tra me e la luce/ c’è una possibilità che io resti immortale.”

 

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