di Erika Di Felice
Autrice di oltre mille poesie, traduttrice – tra gli altri – di Jean Racine, André Gide e Marguerite Yourcenar, tre volte candidata al premio Nobel per la letteratura, unica poetessa ad entrare ancora vivente a far parte della prestigiosa collana de “I Meridiani” di Mondadori: come trovare una chiave di lettura sintetica e al contempo rappresentativa di Maria Luisa Spaziani?
Personalmente abbraccio l’idea di Leonardo Sinisgalli, ovvero che «il poeta è autore di un unico libro che comincia con la prima poesia e finisce con l’ultima» e mi accosto agli autori solitamente leggendone l’opera omnia. In questo caso la lettura del Meridiano mi ha lasciato una certezza, ovvero che affidare a qualche verso il compito di restituire le infinite sfaccettature della Spaziani non potesse minimamente rendere l’idea della vastità della sua figura.
La sua poetica, infatti, è intrisa di mille umori. Ci parla di maternità, di amore, di natura nella sua accezione più ampia, di botanica, astronomia, architettura, arte, urbanistica, in qualche accenno perfino di design, con la singolare capacità di dare senso lirico a dettagli apparentemente trascurabili o di alleggerire note tragiche e passaggi angoscianti.
Sempre un poeta offre al suo lettore
una magica lente che ingrandisce
ciò che l’occhio è abituato a guardare.
E precisa le tinte, i contorni
dà luce al limbo dei particolari.
ci dicono le sue parole ne La luna è già alta (2006). Quello che viene lasciato al lettore è il piacere di scoprire la levità, la grazia – la poesia appunto – con cui questa sostanza vitale viene declinata: una scrittura permeata di una gioia e una freschezza tali da conservarsi pura e intatta nel corso degli anni.
La mia visione personale di Maria Luisa Spaziani non scaturisce tanto dalle sue poesie quanto da un brano della sua Giovanna d’Arco, il poema a cui lavora per oltre cinquant’anni e che lei stessa definisce una «collana di perle [i versi, ndr] tenuta insieme dal filo della narrativa».
All’inizio del VI Canto, sul finire della sua vicenda personale, Giovanna racconta:
Per ore, per giornate, per sei anni
stetti accanto al camino del salone
a contemplare il fuoco, il suo ruggire,
le linguette che salgono a lambire
evanescenti forme d’ombra e luce
che guizzano, s’inarcano, svaniscono
in una danza di scintille. All’ora
del mio mancato rogo, divampavano.
A Domrémy dicevano i pastori
che dall’alba del tempo, il fuoco, mai
generasse una lingua uguale all’altra.
Infinità di segni, oscuro e sacro
linguaggio dell’ignoto, il fuoco è Dio
e il suo contrario. Lottano e s’avvinghiano
come all’Inferno, il più tremendo male
e insieme gran sigillo di Giustizia.
In questi versi a mio avviso è racchiusa la profonda essenza di Maria Luisa Spaziani, che vive nel parallelismo con la figura di Giovanna, «una santa con la spada in mano, una poesia in azione», come lei la descrive: le due donne sono accomunate dalla stessa natura, dalla stessa capacità di farsi compimento del proprio destino attraverso una potenza d’amore in grado di generare slanci vitali sempre rinnovati e sempre ferocemente intensi.
E non è un caso se in un’intervista con Doriano Fasoli la Spaziani identifica nel rosso il colore più rappresentativo della sua scrittura, nella quale «c’è molta passione, c’è molto amore, c’è molta fiducia. Molta giovinezza a tutte le età».
Il fuoco, d’altronde, è un elemento costante e ricorrente fin dalle prime poesie de Le acque del sabato (1954):
Sono di sangue e fuoco i nostri fiori
più veri, o lontanissima stagione
(acqua-di-giovinezza, acqua-di-sogno
rilucente nel cerchio di un lampione).
È questo l’urto che più forte piega
e rapina la quieta nostra sera,
vento di voluttà, mia primavera
ultima e sola.
Sono le stelle grappoli di luce
come i suoi occhi ardenti e illanguiditi,
dono di morte e amore di rapiti
miei paradisi.
Il fuoco assume significati carichi di fertilità, di purezza primordiale e carnale e in questa poesia, allacciandosi agli occhi ardenti e illanguiditi, rende i versi una sorta di corolla fiammeggiante che avvolge quanto è presente sulla terra.
L’intero mondo arriva, quindi, ad essere materia lavica e furore nella sezione Il fuoco dipinto all’interno di Utilità della memoria (1959):
Ritentando d’uscir dal labirinto
contemplavo montagne, aprivo libri,
coglievo ombre fuggenti di bellezza.
Solo tu sciogliesti l’amarezza
ma sei balsamo e scure. E il resto è inerte,
e il mondo intero m’è fuoco dipinto.
Fuochi è anche il titolo della raccolta di prose liriche sul tema dell’amore totale, inteso come «malattia e insieme vocazione» che la Spaziani traduce nel 1984 per Marguerite Yourcenar e torna nuovamente il «fuoco dipinto» – contrapposto al «resto inerte», questa volta sotto forma di «marmo [senza] né sangue né memoria» – ne La traversata dell’oasi (2002):
Passi accanto alla fiamma e non ti accorgi
di lei. Però non è fuoco dipinto.
Sei di marmo, né sangue né memoria
gridano in te la vita.
Inutilmente nel tempo della rabbia
ti sogno in forma di Amazzonia. Fumiga
e scricchiola torcendosi l’intrigo
di ciò che presto è cenere.
dove si percepisce – nonostante la reciproca antipatia dichiarata – una vaga assonanza con Il mestiere di vivere di Pavese («Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai (…) qual è la loro pena, il loro cancro segreto?»).
È dunque questo a mio avviso il primo e grande messaggio di verità di Maria Luisa Spaziani: essere capaci di ardere – di passione, di gioia, di curiosità, di vita – con ineffabile leggerezza.
“Maria Luisa è affascinata dal fuoco”, ha intitolato nel 1963 un suo articolo sulla Gazzetta del Popolo Plinio Salerno. Ebbene, no: lei è il Fuoco. La pura danza di scintille della sua Giovanna d’Arco.
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