di Davide Toffoli
Maria Borio, Dal deserto rosso, Stampa 2009, 2021
“C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos’è. Nessuno me lo dice”, esclama Monica Vitti nel 1964 nei panni di una tormentata Giuliana, protagonista del film Deserto rosso di Michelangelo Antonioni. Il mare, sempre uguale a se stesso, diventa allegoria di una società che celebra il fare e il profitto, senza lasciare tempo alla persona per conoscersi realmente. Poi questa sorta di bolla esplode e la persona si trova al cospetto di una solitudine disperata, quasi irrimediabile. E proprio mentre i media bombardano a tappeto, tracciando una mappa algoritmica perfetta della zona rossa, Maria Borio su RaiRadioTre propone la trasmissione “Dal deserto rosso”, chiedendo a otto scrittrici e scrittori di portare una testimonianza per rappresentare l’immaginario di questo periodo: a ogni puntata, testo, commento e intervista mirano a parlare alla psicologia delle persone, ai loro stati d’animo, incitandole ad affrontare il proprio deserto di realtà.
Dopo la suggestiva esperienza radiofonica, quella proposta da Maria Borio in questa plaquette è una sfida consapevole al reale, talvolta onirico e talvolta materico, ricco di tracce e di presenze varie, nella costante ricerca della parola autentica. Impreziosito dalle opere di Linda Carrara, questo deserto rosso spiazza, colpisce, assesta fendenti imprevedibili e terribilmente efficaci, magari nei momenti più inattesi. Rosso, del resto, è il colore dell’eros, dell’energia vitale, della passione, della rabbia, del dinamismo creativo, ma anche (e soprattutto in questo periodo) colore dell’attenzione e del pericolo. Ma l’unità di misura in questo caso è il punto (“Sono un punto solo nel deserto rosso: / oggi è questa la mia dimensione, un punto / che non ha lunghezza, larghezza, profondità, / caduto dalla parte più alta del cielo sulla terra / piena di silenzio e pura improvvisamente”). E questo punto è come un singolo pixel sullo schermo. Si specchia in un Tu necessario per acquistare corpo e dimensione, come imprescindibile parte di sé, come dialettica indispensabile a far scaturire energia.
I colori si inseguono in questo profondo deserto rosso. Natura e quotidianità sembrano stridere tra loro lasciando avvertire gli scricchiolii sinistri della plastica. “Durare” è forse una resistenza possibile, ma c’è bisogno di affidarsi ad altro per soffiare via il male. Una voce papale invita, come soluzione, a invocare “Padre Nostro”. In queste apparizioni oniriche affiorano animali, reali o allegorici: un delfino, probabilmente di caproniana memoria, presenza enigmatica, divina ed ecologica, segno di reazione e di resistenza, capace qui di guizzare saltando oltre i troppi cadaveri rimasti sull’acqua; oppure una gazza, simbolo sospeso tra amore e inganno, tangibile invito a oltrepassare la razionalità e a iniziare un viaggio alla scoperta di misteri spirituali. La parola “È arrivata ma non dice niente della verità”, è respiro intatto, è sempre un aprile di rinascita, con pelle di crisalide e ali fragili.
In questo deserto ogni creatura incontrata è come un miraggio, mentre la voce si conferma lunare, seducente, scivola “in un linguaggio inesistente millimetro per millimetro” e “scorre nel cortocircuito”. “La stanza è un eden selvatico”, quasi un ossimoro enigmatico e primordiale, che introduce e accompagna verso l’impatto anche fisico di aprile, dove il deserto è percepito come necessario, come concreto e tangibile bisogno. “Ci siamo sbagliati, piccoli bulbi rossi / da premere nella terra. Se ci proteggiamo / le radici si allungano, ci trasformano…”.
Si tratta di una poesia indagatrice e potente, che in maniera sensuale anela alla fusione tra individui (anche del singolo che scopre e concilia distinte parti di sé), fra natura e individuo, fra natura e natura. “Noi è tutti a volte”. Il Tu, l’altro da sé, o semplicemente l’altra parte di sé, affiorano in una concreta necessità dialettica di divenire. “Non esiste felicità, ma qualcosa senza pudore: piantare, allevare”. La Borio crea costantemente legami tra stretta quotidianità e inafferrabile naturalezza, con versi che disegnano prospettive possibili (“In punta dei piedi colgo le ciliegie. / L’albero sopra di me è una giovane galassia”). E la vita terrena, anche quella delle piante, si trova al cospetto della vita delle galassie (“un albero è un codice”).
Il mutamento è inesorabile e i versi lo assecondano con limpidi trancianti: “A guardia della porta chiusa l’ulivo secolare”, ma attenzione ai mutamenti del clima perché “se il clima cambia potremo finire anche noi / vicino alle olive, spiare in alto la testa dell’albero, / mongolfiera che il sole riscalda ma non solleva?”. La contaminazione serve a sopravvivere, a leggere la mappa odierna: sindemìa quindi più che pandemìa… Per orientarsi su regioni che “sembrano quadri / di una scacchiera con pedine invisibili”. La parola è sempre materia liquida.
“È mezzogiorno e vedo una notte di mezza estate”. Anche nell’eden domestico è in agguato una cacciata, perché tutto è trasformazione, persino la morte. “È vero: la specie sopravvissuta / dei dinosauri sono gli uccelli di tutto il pianeta, / le piume sull’involucro, i denti del rettile, l’istinto / e l’incoscienza della morte”. L’impatto dei versi ha un’efficacia quasi veterotestamentaria e la loro potenza si esalta, spesso, proprio in prossimità della fine (“la tenerezza è un tessuto rigenerato”). Mentre ci si percepisce come conigli in gabbia o come primule fiorite protette dal freddo in una serra, la mediterraneità dello sguardo dialoga con un Tu più distaccato dalle cose.
L’altro da sé (anche quando cercato e scoperto dentro, nella propria profonda intimità) è necessario al divenire, al percepirsi vivi (“Soli siamo acquamorta, se uniti acquaviva”). Per sorgere bisogna scrivere “insieme” e premere “invio”. Animali da cortile come supernove ribelli. Ogni parola d’incontro come simbolo alto di purificazione. Questa primavera è al tempo stesso quella di sempre, ma anche qualcosa di unico e apparentemente definitivo, perché “Per cogliere il biancospino bisogna pungersi”… Non è più il tempo della paura. È un aprile che ci consente di rinascere dal deserto rosso di questi giorni assurdi. Uomo e natura si fondono, stringendosi in un indelebile abbraccio: due tortore possono quindi essere una donna vestita da jogging e un uomo che indossa una sciarpa consumata. Siamo onde, vibrazioni magnetiche. Siamo la fine e l’inizio. Solo dopo il tradimento, forse, si torna realmente a fiorire (“Allora lo sguardo più vero è solo quello / che raccontano dopo il bacio di Giuda: / la nostra specie, tutto il bene e il male, / forse solo nella primavera di un tempo / come questo, appare onesta. Silenzio”. E dal silenzio servono parole autentiche, “come sono autentiche le persone / per un momento”.
Chiude la plaquette, tra la luna e il sole, una mistica apparizione femminile: “- poi una donna, in controluce, arriva / alta dall’altra parte del sole, ripete / “verità” e “verità”, “eroismo spoglio…” - / e lei è solo una persona, e contempla, adesso”. Un femminino sacro. Un sé più completo e rinnovato. Una nuova ginestra, come fiore fragile e coraggioso nato dal nuovo deserto rosso. Una preziosa rinascita e una concreta prospettiva.
*
Sono un punto solo nel deserto rosso:
oggi è questa la mia dimensione, un punto
che non ha lunghezza, larghezza, profondità,
caduto dalla parte più alta del cielo su una terra
piena di silenzio e pura improvvisamente.
Ti scrivo da una zona rossa, ed è questa la verità:
i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio,
vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono come me,
punti soli, senza illusione, nella prima primavera
del millennio che al tempo sta cambiando la faccia.
Ti scrivo e da questa stanza sussurro che se un punto
non ha dimensioni è perché forse le ha unite tutte in sé?
Pensarsi è unirsi – mentre la notte e il giorno
hanno un unico colore e impariamo a pensarci –
e un bene, come mai, nuovo?
*
Acqua dà forza all’acqua. Sto per prenderti la mano.
Soli siamo acquamorta, se uniti acquaviva.
Insetti iridescenti saltano su cerchi di amido,
sul pozzo c’è l’alone della ruggine, una tela
grigia e azzurra, le foglie secche dell’ulivo,
parti di terra nei polmoni. Insieme, vuol dire?
Ma ti porto in una casa di costruzione – troverai
le pupille del coniglio, bianchissime nel rosso,
nel cubo della gabbia – poi l’avevo lasciato,
con la sua pazza famiglia correva dentro l’erba,
non è mai stata selvatica – supernova ribelle,
meteorite fra le canne – si sparpaglia, non è
libera, non cambia. Scrivo insieme, premo invio.
Fermo-immagine. Se non siamo mai autentici
verità fai paura? Acquaviva in acquamorta.
*
Ci siamo spogliati, piccoli bulbi rossi
da premere nella terra. Se ci proteggiamo
le radici si allungano, ci trasformano…
Siamo i giardinieri, gli allevatori. Nella pancia
gli altri germogliano, il nostro amore li bagna:
fa sperare, senza pudore? Non esiste felicità,
ma qualcosa che potreste capire quando le persone
condividono uno spazio – noi è tutti a volte,
un sogno: oggi affondare, domani riemergere?
Il giardino è il vuoto e il mondo: tagliate i rami,
gli sguardi cattivi, strappate via le parole-foglie.
Non esiste felicità, ma qualcosa senza pudore:
piantare, allevare. Proteggersi fa spazio?
Senti adesso come si muovono i bulbi, le cellule,
il calendario gregoriano senza una variazione?
*
In punta di piedi colgo le ciliegie.
L’albero sopra di me è una giovane galassia.
La merla salta su asteroidi di muschio,
mangia la polpa, ingoia il nocciolo, una rotazione
si scioglie nel suo petto, il becco giallo del compagno
arriva come una cometa. L’albero che nostro padre
ha piantato vivrà fino a quando le radici perforano
il muro – ma ogni pochi secondi esplodono
le radici delle galassie. Sporchi di succo profumato
crediamo di allevare, di proteggere? Gli uccelli
dividono i pezzi di un frutto, l’aria diventa nera
e li assorbe. Ti scrivo: un albero è un codice.
Stringo il nocciolo fra i denti, sto per deglutire –
Le ciliegie sui rami più alti essiccano e i semi cadendo
Trovano trifoglio o vento stellare.