Margaret Atwood, “Brevi scene di lupi”, Ponte alle Grazie

di Edoardo Sant’Elia

“Queste sono le poesie tarde. / Quasi tutte le poesie sono in ritardo / ovvio: troppo tardi, / come una lettera spedita da un marinaio / che arriva dopo che è annegato”. È in ritardo Margaret Atwood? La poetessa canadese, anche narratrice e saggista di fama internazionale, se lo chiede, con una punta di civetteria che non esclude l’amarezza. E naturalmente risponde coi propri testi, qui tradotti da Renata Morresi.

Testi aspri sebbene spesso colloquiali, un ampio ventaglio di interessi mosso da una curiosità puntualmente critica che poi diviene lirica con asciutta immediatezza, senza pagare alcun dazio all’idea, alla causa volta a volta rappresentata, scarnificata, messa in rilievo. È pungente, la Atwood, sempre con un tocco lieve, ironico, che non fa sconti al carnefice ma nemmeno indulge alle giustificazioni della vittima: “Un uomo può evitare la sentenza diventando il boia, una donna sposando il boia. Al momento non c’è nessun boia, perciò non c’è scampo”. Mai aulica, e comunque mai neutrale, la poetessa scende in campo alcune volte prendendo le distanze, altre immedesimandosi fino in fondo nell’anima, nel corpo della vittima, prestandogli voce e pensieri, come nel Canto del maiale, in cui il protagonista prima si descrive, con smagata oggettività, “occhietti / sporgenti da chiocciola, color / rosa culetto”, né si fa troppe illusioni sulla propria condizione e sul proprio destino, “pappa tipo rapa a fine stagione, / un sacco di pelle che gonfiate per nutrirvi / a vostra volta”, quindi scivola nel menefreghismo, “mi faccio le mie cose cantando / una canzone di bulbo e di grugno”, per virare poi sull’orgoglio consapevole di chi sa di essere, di rappresentare altro, “Signora, / questi canti vi offendono, come questi grugniti”, chiudendo quindi con uno sberleffo dovuto e conseguenziale: “Son tutto vostro. Se mi darete immondizia / canterò il canto dell’immondizia. / Questo è già un inno”.

In altre circostanze la figura della vittima e quella del carnefice coincidono ed entrambe subiscono la tirannia di quei mezzi di comunicazione messi in campo per fornire resoconti esatti, puntuali, nitidi, che divengono però, nel loro ininterrotto succedersi, nel loro continuo sovrapporsi, contundenti e ottundenti: “Persino i miei / occhi passivi trasmutano / tutto ciò che guardo in una foto / di guerra in bianco e nero / come / posso fermarmi? // È pericoloso leggere i giornali”. Ed è altrettanto pericoloso guardarsi dentro; e guardare l’altro senza veli, senza pregiudizi protettivi, per quel che è, per quel che intenderebbe essere. “Cambiare me / stessa è più facile / che cambiare te”: inizia così il lucido soliloquio della donna che non sa come (o non vuole?) proporsi al suo uomo e sciorina i tanti modi in cui potrebbe rendersi allettante, fino al “colpo di scena finale: / collasso sul tuo / letto impugnando il mio cuore / e copro col nostalgico lenzuolo / il mio sorriso d’addio patinato // il che sarebbe scomodo / ma definitivo”.

Il Canada è “Un paradossale centro periferico, diviso tra due lingue, ancora poco studiato, e forse proprio per questo più disponibile alla re-invenzione”, scrive la Morresi nella postfazione. Da lì, da quel luogo eccentrico, al confine sia con gli Stati Uniti sia col Circolo Polare Artico, giungono i messaggi in bottiglia, le stilettate poetiche a doppio taglio della Atwood. Giungono a tempo scaduto? Forse. E tuttavia, se la festa è finita, se “È tardi, è molto tardi; / troppo tardi per ballare. / Allora, canta quel che puoi. / Accendi la luce: canta ancora, / canta: Ora”.

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