L’obbedienza di Marco Pelliccioli

di Davide Rondoni

Marco Pelliccioli, Nel concerto del tempo, Mondadori, 2024

Marco Pelliccioli è un pittore. Intendo indicare così ciò che qualifica e "salva" la sua raccolta recente mondandoriana dal risultare un estremo epigono d'una linea che si volle dir lombarda e ora quasi s'aggira in taluni luoghi (qui il Lambro, a volte Milano, altrove Sesto o la Milano dimessa di vite secondarie) un po' stanca di se stessa e della sua pulitissima lingua, nitida e neopetrarchesca, incline all'aziendale e al sussulto minimo, misurato per presunta buona educazione letteraria e sprezzatura verso ogni slancio in altezza o abisso. Insomma, al di là di collocazioni che ovviamente non son geografiche ma intellettuali e poetiche, la qualità primaria e davvero notevole di tale raccolta che dietro un titolo sinfonico allinea testi quasi sempre piani, scorrevoli, còlti di nomi faunistici e locali, qualche reviviscenza dialettale legata ai personaggi (libro anche romanzo, certo), insomma allinea testi senza musica (perché il concerto è del tempo, non della lingua), credo sia appunto la sua pittoricità. Ovvero la qualità che Pelliccioli ha affinato nel tempo di darci scorci, deviazioni dello sguardo, particolari in controtempo rispetto alla scena - uno sguardo "quantico" verrebbe da dire volendo rubar termini alla scienza che li sta rubando all'arte. Del libro, a lettura finita, restano come penso sia nell'intenzione dell'autore lacerti concentrati e enigmatici di una storia, di presenze che hanno molto significato per lui o per la voce del poeta, luoghi, incontri, sempre fissati in poche righe spesso in prosa, come se la poesia che va verso la prosa di montaliana memoria non fosse in realtà una prosa e basta o il risultato di errate traduzioni dall'inglese dove parevano quei poeti - Eliot, ad esempio - andare a capo un po' a cavolo e procedere prosaicamente, ma era, appunto, una povertà di traduzione. E se pur rimane il dubbio del perché certi testi sono in prosa e altri in versi, nell'insieme il libro di Pelliccioli riesce a farci sentire, a farci stare in quel concerto, anche perché qua e là felicemente sbanda dal controllato pòlito neopetrarchismo lombardo per certe accensioni (la poesia per un figlio, quella per il padre che aggiusta la persiana o il bel dittico "Il fiato che innesca l'universo"). Perché il concerto del tempo, lo sa bene questo poeta che osserva minimi segni di vita nei gorghi, nei passaggi di nessuna importanza, non è una musica che conosciamo, ma ci sorprende, ci chiama a ob-audire, alla obbedienza di amor che ditta e che move il sole e l'altre stelle, come sapeva il poeta esule, che abita cioè il tempo comune con un altro sguardo. Pelliccioli obbedisce procedendo per stratificazione, come certa arte contemporanea, quasi ripetizione di linee e qui di parole/cose, parole/colore. L'esito ha un suo magnetismo, una forza non solo epigona. Non appena perché sa includere termini e situazioni di attualità - dal monopattino elettrico alle chiacchiere sull'eternità in ufficio e i gerghi aziendali opposti a quelli di certi artigiani o manovali. Ma perché tale musica è per lui misteriosa, non è solo il movimento delle cose e delle presenze, per quanto avvicinati in controtempi che fan reagire figure remote e prossime (compaiono pure Agnese e Lucia camminanti lungo il Lambro familiare) o ambienti diversi. No, il concerto viene anche elementi segreti, da altrove.
Credo che la forza pittorica della poesia di Pelliccioli venga da una fame dello sguardo. E dell'ob-audire.

Lascia un commento