di Fabio Barone
Francesco Iannone, L’usignolo di ferro, con quattro disegni di Flavia Peluso, ‘round midnight edizioni, 2021
Ricordate più cosa si prova ad essere bambini? Non è una domanda retorica perciò la risposta non è scontata, ma forse sarebbe più giusto riformularla, la domanda: ritrovate mai quei luoghi aperti da un angolo remoto della memoria, dove sedimenta la sensazione di star conoscendo di nuovo tutto, dentro e attorno a sé? Ecco, quei luoghi dove l’io perde ogni cognizione di quel «sé», se ne libera, lo abbandona perché stufo, non ne può più, e con le braccia protese torna a proiettarsi in avanti come un Pinocchio in preda all’euforia. Ecco, “Ed io non voglio più essere io” diceva il poeta, diceva l’adulto stanco della sua tristezza, sembra dirci Francesco Iannone in questo libretto fragile e radioso, dove l’esperienza sentita della paternità spodesta dal trono quell’«Io» fermo e formato per farsi di nuovo esperienza, ebbrezza di rinascita:
V
Noi bambini non riposiamo mai
sempre abbiamo le mani sporche di terra
e la nostra vita è allegra come i fiori
nei campi con tutti i loro
colori pazzi.
E tu? Ce l’hai la vita allegra?
Sai, è una gran cosa
e non ci vuole molto
io per esempio già dalla mattina
quando mi sveglio
ho una gran voglia di giocare
e dire al mondo
oggi ti faccio vedere io!
Siamo in un territorio in cui l’adulto Iannone è un osservatore, un cercatore di parole che ripercorre in tutte le sue dimensioni l’appropriarsi della conoscenza dal punto di vista di un bambino: rabbia, tristezza, gioia, dispiacere, leggerezza, dolore, sessualità, non ultimo lo stupore legato a una mente ingenua — nel senso di una semplicità degna di un uomo libero — ancora incapace di pensare il male, ma abilissima nel coglierne le sfumature:
IX
A tavola mamma
mi ordina di pulire finanche
l’ultimo rigo rosso di sugo
raddensato sul bordo del piatto.
Si deve, mi dice convinta.
Vedi là, in televisione, quei bambini,
per la fame muoiono anche.
A me invece sembrano finti
e forse anche loro, i grandi,
non ci credono veramente
che sono reali:
Dev’essere così per forza
perché altrimenti non fanno qualcosa?
Non prendono a morsi sul capo
i potenti, i furbi, i cattivi?
Io i grandi proprio non li capisco
parlano parlano dicono amore
e nessuno ne muore.
De Quincey, in suo saggio inedito (scovato e pubblicato sulle pagine della rivista Pangea), pensa a quale possa essere l’effetto che i bambini sortiscono all’interno della società: «Qual è l’effetto, ad esempio, che i bambini hanno sulla società? Con la pietà, la tenerezza, con modi particolari di ammirazione che li rimandano a una sfera indifesa e senza aiuti, con l’innocenza e con la loro semplicità, i bambini non solo rinforzano e rinnovano continuamente i nostri affetti primari, ma proprio le qualità che sono più care agli occhi del cielo – la fragilità, ad esempio, che è gradita alla sopportazione, l’innocenza che simboleggia cose celesti, e la semplicità che è quanto ci sia di più distante dalle cose mondane – tutto questo viene trattenuto grazie ai bambini nel ricordo perpetuo, e i loro ideali ne sono continuamente rinfrescati»[1]. Il passo citato fa venire in mente Socrate quando, parlando con i suoi discepoli in uno splendido intermezzo del dialogo Fedone, fornisce una esemplare testimonianza di cosa vuol dire risvegliare il «fanciullino» (chissà se Pascoli non abbia trovato ispirazione proprio in Platone per la sua famosa metafora) che è in noi:
E Cebete ridendo disse: «Socrate, cerca di persuaderci, come se noi avessimo davvero paura. O meglio […] come se ci fosse un fanciullino dentro di noi che avesse tali paure. Cerca, dunque, di persuadere questo fanciullino a non avere paura della morte come degli spauracchi».
«Ma bisogna fargli gli incantesimi tutti i giorni, – disse Socrate – fino a che non lo si sia placato con tali incantesimi!»[2]. Qui l’accento viene posto su una delle emozioni primordiali che ci attraversano sin dalla nascita, la paura appunto, ma basta, non serve contornare di troppe parole lo spazio aperto da questo libro, sortirebbe l’effetto di un adulto che chiude fra le mura di casa i suoi figli per timore che si facciano male, invece di guardarli crescere, nonostante le cadute, per stupirsi insieme a loro con rinnovato coraggio di affrontare il mondo:
XV
Il mondo è così bello
e c’è bisogno
di uno sguardo allegro
di un viso che se solo lo vedi
ti scendono i brividi
come quando
ti fai la pipì
nei pantaloni.
[1] Pangea News, De Quincey, saggio inedito
[2] Platone, Fedone, Bompiani, Milano 2016, pag. 155