L’ultima neve di Francesco Scarabicchi

di Daniele Giustolisi

 

In uno scritto dedicato all’arte poetica titolato La naturalezza del poeta, Mario Luzi individuava nella modestia e nell’anonimato del poeta non tanto un merito quanto una condizione fondativa del fare poesia. Questo orientamento generativo consisterebbe non tanto in una mortificazione ascetica della propria arte e né, peggio ancora forse, in un isolamento autistico dalla comunità, quanto invece in una postura del poeta di fronte al proprio lavoro. Più che a una sgomitante e mestierante ricerca personalistica, egli dovrebbe tendere, dice suggestivamente Luzi citando Novalis, alla “modestia delle miniere”.

Abbassarsi alla semplicità della terra, cogliersi uomo tra gli uomini, dare voce alle voci, resterebbero infatti le uniche alternative del poeta per non arretrare rispetto alla propria vocazione di “interprete e testimone”. È certamente a questo orientamento che va ascritto l’intero magistero poetico del marchigiano Francesco Scarabicchi, scomparso dopo una lunga malattia lo scorso aprile, all’età di 70 anni, oltre metà dei quali spesi in un rigoroso impegno poetico e culturale nella sua Ancona.

Apicoltore della parola e studioso di arti figurative, Scarabicchi ha incarnato l’operosità discreta delle sue Marche, alla maniera febbrile dell’amato Lorenzo Lotto e dell’“ospite muto che si fa da parte” solo per meglio ascoltare e dare voce essenziale “al fiume della vita”. Per questo, fin dalle prime esperienze, resta fedele a uno scatto breve e bruciante della poesia, ereditando la grande lezione di Ungaretti e soprattutto di Saba.

Bastano in fondo pochi essenziali versi per rovesciare la sentenza montaliana e “dire il poco, il molto che noi siamo”. Bastano se sostenuti dalla forza di una parola poetica in grado di nominare il mistero del mondo a partire dai nomi comuni del mondo stesso, dal loro ordine e posizionamento in un orizzonte condiviso, senza dover ricorrere a sperimentalismi, spettacolari visioni o eccentriche sintassi poetiche a cui Scarabicchi, fedele al suo monachesimo lessicale, come ebbe a dire Enrico Testa, rimarrà sempre estraneo.

La “piccola radio”, “la coroncina del rosario”, “un anello”, non sono solo cose che occupano utilitaristicamente l’esperienza umana, ma possono arrivare a definirla, anche spietatamente. Poiché, a pensarci bene, la vita di un apribottiglie è destinata a superare la nostra esistenza e quella di intere discendenze. “Resistono gli oggetti” scrive Scarabicchi, non noi. Ma è solo a partire da questa consapevolezza che all’uomo, a tutti gli uomini, è dato il gesto di “quel chiedere ostinato in riva al senso”, ben più profondo forse di intere ed eterne sopravvivenze. È una richiesta che investe l’esistente e che incendia di senso e meraviglia cose come “l’anima del pane”. Ripeto: “l’anima del pane”.

Questo movimento di senso, affatto consolatorio, “non c’è davvero altro oltre quest’ora/nulla che resta”, può soltanto compiersi nel “tempo che scompare”, nelle “strade che poi si perdono” ma anche nel salvare dal freddo quel tu e il “sorriso innocente che dedicava al mondo”. Sono questi i cardini dell’intera ricerca di Scarabicchi convergenti in maniera struggente nella sua ultima raccolta, pubblicata postuma da Einaudi, intitolata La figlia che non piange e dedicata alla moglie Liana e ai figli Chiara e Giacomo.

Solo tutto il bianco possibile della pagina conta, ci dice Scarabicchi, in un definitivo atto di fede verso l’atto poetico che apre la raccolta: “non c’è altro luogo che questo” per portare in salvo le parole. Perché se quello della vita è il regno di “una lingua che non ha destino”, soggiogata da uno spietato “contabile del tempo” che no, non restituirà “gli anni non vissuti/ tutti i sogni/ le cose/ i persi sguardi”, resta lo spazio solo per “parole esatte/ asciutte come un lino teso al sole”, solo quelle, né più né meno. Occorre però farsi minimi e leggeri per dare voce al mondo.

In questo resta definitiva l’immagine della neve nella poesia di Scarabicchi, emblema di stupore, semplicità, discrezione, presenza vana e miracolosa, “il niente per cui è dato consegnarsi”. La neve si manifesta come la sua poesia: limpida, umile, piana, delicata. Ne deriva una grande lezione. Di fronte alla ferocia del tempo e all’avvertimento della fine, bisogna restare dalla parte della vita: “non esistere senza esserci stato”.

Bisogna saper restare, bisogna continuare a custodire la casa e curarne i nomi. Stare dalla parte di chi resta. Perché c’è anche una misteriosa bellezza del dolore, ci dice Scarabicchi, una grazia che chiede di trasformarsi in forza generativa, che chiede di restare, di rimanere, pur nella sua dolorosa assenza: “ti mancherà ciò che è con te per sempre”. Per questo, pur tra versi tremendi e spietati, la poesia di Scarabicchi non cede mai a toni apocalittici, nefasti o nichilistici, perché in fondo in questa “infinita eternità del niente abita la salvezza”. Bisogna saper restare negli altri, ma per farlo occorre saper lasciare, lasciare anche la figlia che non piange, esigere il duro scarto d’amore e la sua differenza: “non somigliarmi/ non avere, con me, niente in comune”.

Come si può restare? Come si può continuare ad abitare poeticamente il mondo? Restano i versi dei poeti, ma non solo. Restano le cose giuste per cui vale la vita, ovvero l’amicizia, la bontà, l’amore per la terra, il conflitto contro il niente, il destino dei nomi, soprattutto le parole per un figlio giovanissimo e per la sua generazione: “t’accompagni la luce/ perché sa quanta debolezza ci vuole a illuminare il tuo sentiero/ quanta fragilità a vincere il vento/ cerca la luce d’ogni temporale/ in ogni adesso è il poi che potrà essere/ nessuna fuga ti darà il futuro”.

L’alba vinceva l’ora mattutina…
(Purgatorio, I, 115)

Porto in salvo dal freddo le parole,
curo l’ombra dell’erba, la coltivo
alla luce notturna delle aiuole,
custodisco la casa dove vivo,
dico piano il tuo nome, lo conservo
per l’inverno che viene, come un lume.

(da Il prato bianco, 1997)

Lo sguardo
«Guardo da quest’altura della luce
chi sceglie l’altra via per risalire

verso le case bianche nella nebbia,
e i nomi, consonanti di vie brevi,

musiche che non so, stanze serene
di piccole tendine e sedie amiche,

cibo nei piatti pronto, fuoco acceso.
È qui che ho visto addormentarsi il tempo,

scegliere di una sera il suo giaciglio,
dedicarsi alla voce che non mente,

conquistare per sempre senza armi».

(da L’esperienza della neve, 2003)

Ti mentirò ogni volta che saprai,
sarò la verità che ti si addice,
il timore di me che trema e geme,
l’ansia di abbandonarmi, la paura.
Non c’è davvero altro oltre quest’ora,
confine insuperato che ti avvisa
che nulla resta, nulla si consegna.
Il corpo perde ogni sua divisa,
la beltà delle epoche, la forma,
muta ad ogni stagione, si confida,
lascia le stanze dell’amore, sogna
tutti gli anni dei mesi che ha mancato.
Impara a consumarmi, a consumare
quel che non resta, quel che non si ferma;
ardi alla fiamma d’una vita spesa
finché non si fa brace d’oro in cenere.

(da L’ora felice, 2010)

Sarò puntuale quando sarai notte,
starò dalla tua parte a ravvisarti
gli anni di molte insonnie e passi calmi.
Avrò quel viso che non so di avere,
dirò parole appena per fermarti
sull’unico confine che scompare.

(da La figlia che non piange, 2021)

Una residenza

a Massimo Recalcati

Non c’è altro luogo, credimi, che questo,
tutto il bianco possibile, la pagina
e poi quelle formiche delle righe
a dire il poco, il molto che noi siamo,
ma non tanto di me e del passato
quando era l’unico presente che avevamo,
non tanto di una vita dice la scrittura,
ma di quel niente in cui te la riduce
e l’illusione precaria d’ogni verso
credendo di salvarlo almeno in parte
quel lucente frammento tolto al buio,
quell’oro di granelli che si perde,
quel segreto mistero inesistente.

(da La figlia che non piange, 2021)

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