di Davide Rondoni
Corinna è una ragazza piena di dolore. Nel romanzo mandato in stampa da poco da La Nave di Teseo (L'estate delle ragazze) la poetessa Lucrezia Lerro ne racconta la storia d'amore e pena in modo elegante, risoluto e con circolare, ossessiva persuasività. Un romanzo raccontato in prima persona da una protagonista che non a caso, a mio avviso, porta il nome della dedicataria degli Amores di Orazio. Romanzo tutto centrato sul dolore, sull'amore e sulla letteratura, infatti. Vi si ripercorre la storia di un amore luminoso e dolente tra la protagonista e Jacopo, scrittore di successo, ove il carburante è tutto nella infinita pena di vivere della ragazza, bellissima e affetta da nevrosi che si esprimono soprattutto nel rapporto distorto con i suoi bei capelli. Se li strappa lungamente, sono i compagni delle sue mattine di depressione, sono gli ammiratissimi (dagli altri) testimoni di un male di vivere che ha radici in una mancata accettazione di se stessi. Pasolini nel '75, più o meno l'anno di nascita dell'autrice e della sua protagonista, scrive che "Ora, oggettivamente, nessun figlio è ormai più accolto nel mondo con l'amore di un tempo, quando egli era appunto per definizione 'benedetto'". Tale elemento molto significativo di quella che egli stesso chiamava mutamento antropologico si radica indubitabilmente - pur con molte varianti e deviazioni - in quella perdita del senso sacro della esistenza che accusava progredire dalla metà degli anni '50 in tutta la cultura occidentale. E infatti del sacro - pur in mezzo a tanta dolente esistenza - non v'è traccia in questo racconto di una vita che pur non avendo esteriormente particolari motivi di "tragicità" (se non una specie di anafettività familiare e l'incontro con la morte di una persona cara) sembra ancorata a una cupezza inguaribile, nemmeno salvabile dall'amore. O meglio, nel racconto intrecciato con sapienza soave e crudele dalla Lerro, il senso sacro della esistenza traspare a baluginii, velato e muto, in certe descrizioni, in certi momenti di dialogo discreto e sospeso tra i due amanti, e soprattutto, nella consapevolezza di entrambi di aver ricevuto, per quanto impossibile a viversi nella "norma", un dono d'amore che li strappa a una condanna di solitudine nel mondo.
Ci sono pagine di grande delicata potenza, certi scorci di Firenze e di Milano e delle umanità che le abitano, ci sono considerazioni amare e senza scampo sulle attitudini anche diuturne degli umani, ci sono ritratti senza veleno ma grande compatimento dei vizi e soprattutto una speciale osservazione dell'universo sofferente di tante ragazze. Le prime pagine, veramente belle, ritraggono tredici di loro, ragazze di vita o che si arrangiano per campare anche mettendosi a disposizione dei clienti in un alberguccio di Firenze. Sono pagine di penosa luminosità, dove il "rito" di asciugarsi i capelli al sole diviene una specie di possibile unico paradiso. Sono - quelle tra altre - le pagine in cui la Lerro mostra la sua peculiare virtù narrativa. Schiva alle grandi arcate narrative e al moralismo, impiega il sonar mostruosamente percettivo della poesia per introdursi nell'indicibile. E anche se il finale (non la parte più forte del libro) conclude con una sorta di omaggio a Freud come paramorale della storia - causa forse la professione psicoterapeuta della scrittrice ma credo anche la connotazione desacralizzata della visione psichica freudiana - gli scandagli più fini, le aperture in radure di senso, provengono dall'uso poetico del linguaggio, da certe sospese descrizioni, da interruzuoni ritmiche del discorso (e dei discorsi) e da certe aritmie della visione.
La storia, minima e lineare (la ragazza vive a Firenze, dovrebbe studiare, vuole fare la scrittrice), ha il suo palco segreto in quello della letteratura, non solo perché l'amante ne è esponente, e non solo perché la lettura accompagna la risalita esistenziale e professionale della ragazza da sud a nord, fino a Milano. Soprattutto perché qui la letteratura viene incaricata da Corinna (nome letterario come pochi, è pure della protagonista dell'importante romanzo di Madame De Staël che tanto ha segnato la cultura europea agli inizi dell'800, Manzoni per intenderci) d'essere la medicina, la cura, insomma la possibile riattivazione di vitalità in un corpo meraviglioso e inchiodato dalla pena. In questa designazione, in questo affidamento vivono vari motivi e rischi. Il primo, deriva dalla indubbia potenzialità terapeutica della scrittura, anche non artistica. Il secondo, rischioso, deriva da una sorta di diffusa idolatria dell'arte propria di un'epoca secolarizzata ma non per questo priva di desiderio religioso. Il terzo - con cui sentiamo di accordarci più pienamente - con la consapevolezza che essa, la letteratura, se vissuta e cercata al massimo grado di intensità e di serietà provvede e sempre ha provveduto a dotare la vita e il suo mistero di una risorsa di comprensione speciale, di una arte della conoscenza in grado di sintetizzare le molte conoscenze in una, e, infine, di una forma di colloquio profondo tra gli umani, spesso inclini invece a conversazione superficiale e superflua.
Romanzo dunque non solo di godevole lettura, ma di molti risvolti, di molte aperture per la comprensione della vita attuale e segreta che abbiamo.
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