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Lorenzo Puglisi, dipingere il sipario

di Daniele Giustolisi

È un sipario insolitamente dipinto quello del Teatro Tuscany Hall di Firenze. Un sipario che non scandisce solamente i tempi dell’opera, ma che è esso stesso opera. Che sta sulla soglia, prima del visibile e dell’udibile. Dal suo inusuale fondo nero, solo l’estremità di due corpi, l’anatomia che tocca la vita. Mani e piedi come stelle terrestri. Due teste come lucenti radiografie nella notte. E uno strano lampo su di una. Se non vedessimo con gli occhi pieni di sapere, se non sapessimo, cioè, che quel sipario dipinto è una sorta di negativo di un’Annunciazione, quella dipinta da Tintoretto attorno al 1584, nella Scuola Grande di San Rocco, a Venezia, ne sentiremmo ugualmente tutta l’imponente vertigine: da una parte la presenza-angelo che piomba da quale oscurità, dall’altra lo spavento della presenza-Maria, che fa per ritrarsi.

Silenzio, 2023, Teatro Tuscany Hall, Firenze (foto di Marco Borrelli)

Lorenzo Puglisi è il nono pittore a misurarsi con “Sipario d’artista”, originale progetto promosso dal 2005 dall’associazione Amici della contemporaneità che fa dei sipari del Tuscany Hall un’opera d’arte. Aldo Mondino, Carla Accardi, Mimmo Paladino, sono solo alcuni degli artisti ad averli firmati nel tempo. Puglisi, classe 1971, piemontese, ma un’ascendenza etnea con chissà quale nero di pietra lavica agli occhi, ha realizzato l’ultimo pezzo di questa collezione unica, inaugurato lo scorso 29 dicembre col titolo paradigmatico “Silenzio”.

Dodici metri per sei, tanta è la misura della tela-sipario che nasconde la scena. Inevitabile approdo per Puglisi, abituato a lavorare a installazioni grandi ed estese, spesso site-specific, come sull’isola di San Servolo, a Venezia, alla Biennale 2022 (Viaggio al termine della notte) o nella Sagrestia del Bramante, in Santa Maria delle Grazie, a Milano (Il grande sacrificio). D’altronde, l’oscurità delle sue opere, che scava il visibile e strazia il leggibile, come direbbe Didi-Huberman, cos’è se non il segno più diretto di una dismisura che dilaga, investe le pupille e i luoghi che la ospitano.

È l’ecografia del mistero, fatta di sincopi di luce e forme umanoidi mutilate dal buio. Una notte gestazionale da cui può affiorare il movimento della vita, il battito del mondo, senza cedere al notturno, al maledettismo dell’informe. “Il buio è la condizione, il non conoscere – dice Puglisi – la notte a cui però segue il giorno, la grande occasione che è la vita, i suoi attimi di illuminazione, grazia e bellezza; basta alzare gli occhi, guardarsi, ritornare alla vita, al sorriso”.

Natività, olio su tela, 2016

Tenebra e luce lavorano insieme. Si intrecciano, contaminano, lottano: concorrono a trovare il cuore dell’uomo. L’una non è solo la dimensione mortifera del peccato, l’altra non è per forza il suo scongiuro. Dove c’è rigida e moralistica separazione, la vita si ammala, soffre. È la grande lezione teologica di Caravaggio, in fondo, per cui la luce non neutralizza la notte dei peccatori, ma si nutre di essa per riconoscerli come i primi uomini scovati dalla grazia.

Puglisi ne radicalizza il gesto, assumendo il colore nero a soggetto che supporta l’intero evento dell’immagine, in un lavoro della figurabilità che sottrae, fa brandelli, omissioni, fino a raggiugere l’osso della forma umana.  Che resta, appunto. Resiste all’annientamento, come traccia di una domanda, come spazio di desiderio, una supplica a non sparire.

Bisogna ritornare allora alla grande arte cristiana, che ha fatto del corpo di donne e uomini la misura più alta del mistero. Un formidabile campionario di gesti per le opere di Puglisi, ma solo a patto di spogliarli della loro storia, della loro solennità teologica, riportandoli quasi al grado zero del figurabile, in una sorta di monachesimo figurativo che compie, a ritroso, il percorso: dalla pienezza del volto del santo alla sua scarnificazione di uomo tra gli uomini.

Non più allora luoghi, narrazioni, corpi conoscibili, ma solo lampi nel buio, interruzioni, spostamenti, per cui titoli come Matteo e l’angelo, Natività, Nell’orto degli ulivi, lavorano non tanto come didascalie dell’opera, ma come suo possibile cortocircuito, dal momento che ogni gioco di riconoscibilità salta, si frantuma. Forme dunque come tracce mnestiche, sopravvivenze warburghiane di immagini e storie depositate nella cultura cristiana, che chiedono non la loro rassicurante ricomposizione, ma un loro attraversamento.

Matteo e l’angelo, olio su tela, 2015

Nessun psicologismo disincarnato, nessun intellettualismo postmoderno che rifà il capolavoro. Puglisi si serve del sapere dell’arte per disfarlo. Chi sceglie il sapere, sceglie l’unità della sintesi, l’evidenza della ragione, il vedere chiaro e distinto. Ma colui che sceglie di guardare, perde quell’unità, per ritrovarsi nel mare aperto dell’immagine, abbandonato a tutte le correnti del senso. Puglisi gioca sul valore della deformazione, delle rotture logiche; l’identità si sfalda e si contamina di alterità. Non c’è distinzione tra un san Matteo e una testa di uomo.

La ragione si lacera, come si lacera la carne unta, amata, toccata, ferita e vilipesa di Cristo e degli uomini di tutti i tempi. Ma è proprio la lacerazione, intesa come apertura, possibilità, rischio, e non la conservazione, a rendere possibile il movimento della vita, il suo compimento più profondo, la sua passione. Ma occorre, appunto, andare all’origine, fare spazio, sottrarre, sottrarsi, fare silenzio.

È quello che chiede il sipario dipinto di Puglisi. Non solo monito per gli spettatori in sala, ma soprattutto metafora di una condizione che rende possibile la generatività, l’avvento della vita, l’inizio del suo spettacolo. Può esserci parola autentica, movimento, solo dopo il silenzio; il vuoto come fondamentale premessa al compimento: “Il silenzio è il momento che preannuncia l’inizio di qualcosa di grande e spaventoso – ancora Puglisi – un atto straordinario, una rivoluzione dell’anima”.

L’artista, dunque, “recupera” per l’occasione l’Annunciazione di Tintoretto, ma della vivida drammaticità teatrale del maestro veneziano resta, appunto, solo l’essenziale nucleo di un segreto indicibile, letteralmente fuori discorso, fuori logica, fuori luogo, che passa tra due forme appena abbozzate, quelle dell’angelo e di Maria. È l’inizio dell’avventura cristiana che mette in gioco una perdita: l’ineffabilità e l’invisibilità del Verbo che si fa, proprio attraverso quell’annuncio inaudito, corpo nella storia.

Di questa scena, però, Puglisi ci restituisce solo l’atto, sospendendo, alla sua maniera, ogni componente narrativa. L’atto non è l’azione, non è un fare. Porta con sé un’emergenza che oltrepassa l’intenzionalità dell’azione, il suo progetto. È lì, nell’ordine del lampo, dell’apparizione, dell’inaudito, nella contingenza di un incontro eccezionale che interrompe la catena della necessità e della ripetizione della storia per trasformarla.

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