L’irruenza originaria di Anila Hanxhari

Anila Hanxhari, Tiro a sorte la libertà, Tabula fati, Chieti, 2016, pp. 118, 10 euro

Cosa desideriamo, quando apriamo la prima pagina di un libro di poesie di un autore che non conosciamo? La felicità mentale che può scaturire dalla percezione del miraggio di una reciprocità, di un con-sentire d’anime? Il piacere del riconoscimento, che è come dire di un rispecchiamento di noi stessi (o di un parte almeno di noi stessi) per grazia di voce altrui? Lo shock della rivelazione di qualcosa d’altro che irrompe, nuovo, all’orizzonte della nostra coscienza, energizzandolo? Tutto questo, probabilmente. E probabilmente molto altro ancora. Non si insegue, in definitiva, che il nostro sogno del mondo – o dei mondi, se abbiamo almeno un minimo di inclinazioni bruniano-cosmologiche…

Sia come sia, questo bel Tiro a sorte la libertà di Anila Hanxhari conferma l’impressione della lussureggiante novità della poesia dell’ancor giovane poetessa albanese, che è piombata nel bel mezzo della via larga e tendenzialmente senza scosse della nostra tradizione più recente come una sorta d’incarnazione piena di grazia del freudiano “perturbante”.

Irruente, irridente, fastosamente immaginifica, la voce multipla eppure così riconoscibilmente sua della Hanxhari serve un sano principio decostruttivo del verso “giusto”, calibrandosi sul metro di una dinamica ritmica, lessicale e visionaria di stampo neo-surrealista che mi sembra avere fertili potenzialità rivitalizzanti. Aperta la prima pagina al di là degli eserghi, subito leggiamo: “La mente è un popolo, diceva mio nonno/ mio nonno è una barricata/ ha sviluppato l’ascendenza del silenzio nei calli/ mastica la parola sotto i baffi con i melograni…” E poi leggiamo anche: “Se nella corsa i piedi pensano/ allora ogni passo avrebbe un uomo dentro/ come un abito o il bene”; oppure, ancora, per esempio: “Libertà ti è spina nel fianco la figlia/ e non puoi arrotolare la lingua nella morsa/ dove la dignità cinge la testa/ destinata a misurarsi con le cicale”. Davvero, molto di rado nella scrittura in versi che si pratica, oggi, in Italia, capita di imbattersi in un’intenzione così perfettamente risolta nel gesto poetico. Sembra quasi che i semi arcaicizzanti gettati a suo tempo dal mitomodernismo abbiano fruttificato, oggi, sul terreno pre-letterario nel quale affonda la vocazione anfibia della Hanxhari, che affila la propria stramba, capillare percettività e la qualità spiazzante del suo straniante controcanto neo-barocco attingendo a piene mani, come un agrimensore dell’invisibile, ai serbatoi terrestri e celesti dell’arché.

Il che, detto in un altro modo potrebbe suonare anche così: la Hanxhari scrive poesia originale non perché la sua sia una poesia semplicemente (banalmente) nuova, ma perché, Deo gratias!, cerca di, e riesce a, essere originaria.

Massimo Morasso

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