L’insurrezione di Dante Maffia
Maffia s’è messo fuori gioco. Non so se era sua intenzione o se v’era nel gesto ferino di pubblicare un libro impossibile una occulta supplica o grido. Ma di certo ce l’ ha fatta: è andato fuori, in quell’altrove dalla cosiddetta letteratura che è il suo vero luogo, la sua vera fonte e deserto da attraversare sempre. Insomma, con il magno Opus magmatico e magniloquente, egotico e spersonalizzante, ironico e acido, ironico e disfatto, s’è messo definitivamente da un’altra parte. Quell’altra parte di innominanza, di esuberanza. Se a questo si aggiunge la contemporanea dissimulata orchestrazione per una “candidatura” al Nobel che deve suonare ai più come una sceneggiata, abbiamo la dimensione della definitiva uscita di scena (in una tale costruitissima messinscena) del poeta Maffia. E non v’è che tra coloro che conoscono la storia della poesia chi non sappia che la scena di un’epoca è raramente ben organizzata rispetto ai valori estetici che a volte paiono dominare salvo poi, in poco volger di decenni o poco più, dissolversi. Ma si tratta nel caso di Maffia di una oltranza estetica? Insomma c’è qualcosa nella sua opera che abbisogna di un tale apparecchiamento finale, di tale squilibrato piano di cose per poter esistere? O detto in altro modo, dopo una lunga carriera di poeta onorato nella capitale e nelle provincie, in editori di vario livello e in molte iniziative di diversa fattura, che bisogno c’era e questo pre-finale plateale? Forse lo ha colto quella tremenda malattia dei poeti e degli artisti che si chiama “monumentalizzazione precox”? Nella variante aggravata della “(auto) monumentalizzazione precox”? Quella, per intenderci, che affligge vecchie poetesse e poeti attempati che supplicano editori ormai sfiancati e depauperati da decenni di calo del mercato e di loro idiotissime politiche editoriali di fare una raccolta completa, un selcerei poema, almeno un Oscar o qualcosa di simile delle “mie imperdibili poesie”?
No, qui c è qualcosa di più lucido, di più ferino e inquietante. La vanagloria accompagnerà sempre il cammino dell’arte e non sarà questa la sua nemica, anzi. Ma Maffia rompendo gli argini e il ritegno sta dicendo un’altra cosa. E sta dicendo la stessa cosa di Leopardi e di Ungaretti. Che la poesia è la “vita di un uomo” non la ingegneria linguistica o il posizionamento in una estetica. E che tale vita non è fatta per esser scritta in libro, tanto è vero che il suo libro si “dissolve”. E paradossalmente dice la dissolvenza gonfiandosi a dismisura, portando con sé tutto il vissuto e il dicibile. Maffia lavora su un orizzonte invece che su una materia. E credo che il suo gesto sia – di là dal valore propriamente poetico (e poi cosa significa in fondo?) – un gesto di insurrezione che va al cuore del problema culturale del nostro tempo. In definitiva un gesto di critica della cultura. Attraverso un gesto che si presenta come artistico. Infatti, in un libro che contiene e non riesce a contenere poesie di vario registro e tema, e che tende, come dice la nota di Francesca Diano, “a occupare ogni angolo e interstizio del dicibile”, c’è un filo d’acciaio, un nastro rosso che lo traversa. E al di là pure dei tentativi di dare un quadro filosofico o spirituale adeguato a questo avventurarsi poetico nel mondo e nella sua dissolvenza, quel filo duro o nastro colorato mantengono la loro centralità. Ed è che nell’ epoca del non-io celebrato in vario modo, e sotto la pressione di molti poteri e interessi (politici, mediatici, finanziari e di una certa concezione spersonalizzante del web) Maffia celebra l’io generato e generante. L’io dominus (ma nel segno dello stupore non della superbia) l’io figlio e padre (“ascolta il cicaleccio/ dell’anima dei tigli,/ rinuncia al tuo libeccio/ abbraccia ancora i figli.//Un giorno solo loro / avrai al capezzale,/ e non varrà l’alloro/ per redimere il male”). E non a caso nella stramba e ironica prefazione firmata Dante Alighieri si chiude nel ricordo e nell’attesa di riabbracciare Padre e Madre. Insomma un uomo arcaico e futuro (almeno a giudicare dagli studi dei più avanzati sociologi) che ritrova nell’andamento vorticoso del tutto la sua dimensione nella capacità generante e di riconoscersi generato. Uomo antichissimo e futuro. Non l’individuo alfa e omega del consumo e della solitudine contemporanea, e non il collettivo dell’ideologia o della cultura a compartimenti stagni. Non il “tipo” dell’epoca tipizzante, e nemmeno il tipo di poeta. Così la varietà quasi bulimica, l’estensione di registri sempre ancorata a una lucidità di dizione e composizione che legano la poesia di Maffia alle eredità del classico più che del moderno, non sono i segni di un nomadismo affamato e insoddisfatto, ma quasi un gioco attrezzatissimo e libero, un godimento della parola, una rivendicazione assoluta. Di fronte alla quale gli stolti ridacchiano e i semplici di cuore si interrogano. Perché forse là, dov’è finito Maffia, ci sono le fonti che si cercano. E le invenzioni che spesso qui in giro si vede che mancano.
Davide Rondoni