Il libro rischioso di Davide Romagnoli: le dita (e il cuore) nella corrente

di Davide Rondoni

Davide Romagnoli, Curênt, Marco Saya 2024

Davide Romagnoli con "Curênt" (elegantemente edito da Marco Saya) si conferma una delle voci migliori e più libere della poesia italiana. Non solo per l'uso del dialetto milanese da lui - sulla scia di Franco Loi - reinventato e tradotto fino a risultare lingua antica e nuova, ma credo innanzitutto per una rischiosa e dunque coraggiosa immersione nel tema dei temi, ovvero: cosa muove veramente la vita? Insomma cosa è questa "curênt" che non si ferma nemmeno in un panorama di "seggiole infinitamente sfondate", di notti dove l'autore ammette "affondo nel fondale della mia fine", in una periferia milanese mai però lasciata senza visionarietà, e in lutti perdite amori sempre interrogati. Libro sul tempo, e sulla corrente che lo traversa. E perciò stesso, come diceva Pascoli, libro che nasce - come non potrebbe altrimenti la poesia - dalla religione, cioè dal "pensier della morte". Che è il contrario della corrente. Il senso della morte diventa anch'esso corrente viva e imprendibile che pervade il libro ma come un valzer, non una cappa di mestizia, come un'aria, appunto, facendo del libro una danza di arie e correnti ("aria" è una delle parole chiave di Loi ereditate in lui da Tessa e ora da Romagnoli). Correnti si scontrano nelle vie, nei momenti, negli abbracci, negli sguardi appena accennati, nelle anime vaganti che abitano queste pagine. Pagine visionarie, ricche di metafore, di doppie triple metafore, come se Tessa avesse aspettato Dylan Thomas per bersi qualcosa insieme. Metafore ricche e pur insieme in una voce comunque sorvegliata e ripetuta quasi limite del rimùginio. Ci sono testi belli che arrivano come una fucilata, come a pag. 47, o come a pag. 93, la bella poesia dedicata a "Michele" che inizia così...

L'è minga lüs - te disevet - se la sà no de fiur
Non è luce - dicevi - se non sa di fiori

E come appare una figurazione femminile che muta da "sorella" a "compagna bambina" a "mia donna di questa stanza" così appare fissa e mutevole pure la figura del divino, del mistero. Aria e Ruah, "Spirito" in ebraico, o anche figure di santi, madonnine, dialoghi strambi, nostalgie, "dio qualsiasi". Come se la "curènt" che attraversa la vita fossi così misteriosa da non aver né capo né coda evidenti, nome fisso o figura, affermazione e negazione di ogni sua immagine, come è proprio del mistero divino. E del vento che cancella se stesso mentre esiste.
Ha ragione Giovanni Tesio, maggior esperto di poesia dialettale insieme a Manuel Cohen, ad attestare con sicurezza, dopo le attestazioni di Milo De Angelis e di Giancarlo Pontiggia, che Romagnoli è un poeta. Io lo so, lo dico da anni, e anche per questo gli sono amico. E sono contento che abbia fatto davvero un bel libro, a cui rimprovero solo due cose - come è giusto fare tra lettori seri e amici attenti: qualche alzata di tono forse inutile nelle autotraduzioni (ad es. a pag. 45 dove "i sogn bianc" diventano "sogni diafani" - un po' un inserto preraffaelita nell'allucinato e mistico mondo visionario - oppure ancora quando a pag. 85 un "fiö smaniûs" diviene un deangelisiano letterario "morboso figlio"). Ma questo primo rimprovero riguarda cosette perdonabili e rimediabili. Il secondo è invece di non esser romagnolo e di non scrivere nella lingua della terra che ha dato tra i migliori dialettali del secondo Novecento, battendo Milano 6 a 3. Ma a questo non c'è rimedio. E quindi va bene, anzi benissimo, così.

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