Le Foglie altrove di Michele Paoletti

di Andrea Galgano

 

Michele Paoletti, Foglie altrove, Arcipelago Itaca, pp. 76, Euro 13

Con Foglie altrove, edito da Arcipelago Itaca, Michele Paoletti parte da una linea apicale e decisiva che si solleva al di là del tempo: Yves Bonnefoy, come scrive Maria Grazia Calandrone nella prefazione: «Il nume tutelare posto a esergo del libro di Michele Paoletti dice del giorno, che si solleva di là del tempo. La parte centrale del verso di Bonnefoy, «au-delà du temps», contiene la cifra della poesia di Paoletti, che punta il proprio sguardo in un «altrove» che proviene. Un «altrove» però decisamente materico e possibile, se la natura è qui padrona dei versi ed è metafora di quasi niente: è se stessa, osservata».

Tale osservazione, dunque, sembra nata da uno scavo di limpidezza e definitività cristallina, imperniata sul contrasto e sulla vividezza. La nudità dell’umano come avamposto dinanzi alla natura, attraverso la traduzione della parola e della sillaba come silenzio, armonia con ciò che vive, segreto e obbedienza («… e saranno foglie altrove / sopra la terra, intorno / ai nostri corpi nudi. Foglie / spalancate dentro una stagione / viva, senza nome»), verrebbe da dire.

È l’attesa del mondo, qualcosa che si impone come nascita e finitudine, sfrondata fino all’infinito, strappato alla primavera: «Dalla montagna sgorga a perdifiato / un vento tiepido di attese. Un fiore / spacca il grigio della pietra, si aggrappa / contro i tronchi degli abeti. / Un pugno lo nasconderebbe per intero, / come strappare un po’ di primavera, / farla durare più del grido di uno storno / che vola verso il sole e non si volta».

Vi è, nella poesia di Paoletti, un respiro-grido, una gemma albare di grazia e di abbandono, che attraverso la finitezza comunica la dignità lucente dell’essere uomini, nelle lune incagliate, nel fuoco della lontananza, nella resa del vento come un richiamo, un ordito, un soffio di materia cruda: «Stiamo nei nostri respiri contro i vetri / impaginando silenzi con le dita / e i cani fuori a bere la notte / a sorsi prima che finisca / in un fracasso di alba all’orizzonte. / Stiamo alla catena dei giorni / senza peso. / Intorno il vento odora di abbandono».

Natura di contrasti e di ossimori, di bellezza e voluttà malinconica, laddove la memoria scandisce ogni possibile devianza: «Paesaggio da presepe che è, insieme, finzione e introduzione all’infanzia, ovvero al sentimento del tempo, alla perdita e allo slancio – anche malinconico – verso un indefinito luminoso che sarà (forse ormai è) questa età adulta, impastata al tempo e alle cose come un minerale, che pure brilla, soprattutto quando cede il passo all’immobilità di un’altra infanzia».

È l’ungarettiano sentimento del tempo che spalanca la sua edace consistenza, lasciando sì precarietà ma anche un grumo di sogno e sedimento, e gioia sfrontata: «Il temporale sfonda il cielo / prepotente, le case / trattengono il respiro. / Una gioia sfrontata d’acqua / ci piove dentro, ci fa ridere di pianto».

Questo respiro, allora, diventa umanità spalancata e deposito memoriale. Un avvenimento che colora le stagioni di segreto muto, di gonfiore pieno, fino alla folgore degli orizzonti e della luce: «Luce benedici il mio cortile, / la fontanella, le pozzanghere che evaporano / nel sole. Lascia una carezza bianca / sulla legna accatastata / perché non abbia paura della fiamma / e renda l’inverno un po’ più chiaro. / Luce infiamma le finestre dure / le stanze dove fiorivano i segreti. / Adesso non riesco a chiudere le porte / i cassetti non stanno al loro posto / e quella mattonella in fondo trema. / Non sostiene più il peso del mio passo».

L’infanzia dei cortili, la memoria, l’intreccio, il peso dell’inverno che genera precarietà e consistenza, l’hic et nunc dello stupore aereo, la distanza e le lontananze sono miracoli muti e inaccessibili, vivono i venti e le primavere, inscenando un territorio incolume, una breccia sul fondo delle cose che riporta a De Angelis, in una migrazione di sillabe di luce: «Spesso il mondo accadeva nei cortili / mentre rinforzavi un argine / per il fiume di carta stagnola / e scampavi alla catastrofe di stecchi / che crollano improvvisi. / Era tutto intorno – da afferrare / con uno scatto di tagliola / recidere il cordone, / poi liberi nel cielo farsi luce / manata di vento che ricostruisce».

In tutto il suo respiro, nel seme che sorge inciso nell’aria, Paoletti scrive il suo gesto vivente, come un punto esatto che non cede, si dispone, si afferma, fino all’ultimità e al segreto slacciato del mondo.

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