Le “Anime perse” di Umberto Piersanti

di Alessandra Corbetta

Abbiamo mai incontrato un’anima persa? Ci siamo chiesti se, forse, lo siamo state anche noi, anime perse, per qualche tempo? Qual è il loro posto, se un luogo per loro e per noi esiste? Credo che qualsiasi considerazione sulle Anime Perse (Marcos y Marcos 2018) di Umberto Piersanti debba partire innanzitutto da questa serie di interrogativi, ai quali non corrisponde la pretesa di una risposta definitiva, ma la cui formulazione è necessaria alla comprensione del libro. Piersanti traspone anche in questa successione di racconti la sua finezza intellettuale e umana, dando voce a persone-personaggi trafitti dal male, perforati, nell’anima prima che nella mente, dalle storture del mondo. Raccogliendo il testimone da Ferruccio Giovanetti, fondatore e amministratore del Gruppo Atena, una delle più importanti strutture di recupero della regione Marche che accoglie ospiti affetti da patologie psichiatriche di vario tipo, Piersanti interpreta e racconta diciotto storie vere, selezionate dallo stesso Giovanetti, per ri-consegnare la parola a chi sembra esserne stato privato dagli eventi e dal corso della vita. La scrittura del poeta urbinate connota, fin dalle prime pagine e in maniera inequivocabile, lo spazio all’interno del quale i soggetti afflitti e le loro storie sono collocati: un centro riabilitativo, certo, in cui prevale però l’elemento del verde, concretizzato nella forma dell’orto o del giardino; un luogo esterno dentro un internamento che protegge e armonizza ulteriormente l’elemento umano al suo interno. Piersanti, che è il poeta della Natura, sceglie questa volta di lasciarla sullo sfondo, cosicché tutta la luce del suo dire confluisca sui personaggi e sulle loro vicende; eppure, anche da questa posizione secondaria, fiori, alberi e frutteti descrivono uno stato del vivere, una possibilità del continuare a esistere, in qualche modo. La struttura ospitante rievoca, per certi versi, la villa dove si ritrovano i giovani del Decamerone di Giovanni Boccaccio: se in Piersanti le caratteristiche del locus amoenus sfumano, di fronte a condizioni di sofferenza e violenza pregressa di portata inespugnabile, si mantengono però, a tutti gli effetti, quelle di luogo separatore, di spazio altro rispetto a quello del reale, identificabile con un quotidiano di sofferenza e dolore dove anche la speranza è cessata. Così, quello che sembrerebbe un territorio dell’isolamento, diviene la zona non-ombra del riscatto, dell’ancora possibile; perché dentro la struttura il tempo non scorre, non c’è penuria e il male è solo quello degli altri. Un richiamo è allora possibile al concetto epicureo di eudemonia, che possiamo tradurre con “serenità”, ossia quel sentimento capace di far vivere l’uomo sulla base dei propri bisogni naturali; da cui la metafora della vita come banchetto, che nel locus boccacciano ritorna nella forma del ludus, da cui congedarsi senza rimpianti poiché la morte, spiega ancora Epicuro, non è dove noi siamo ed è dove noi non siamo. Per cui non è una serenità qualsiasi quella che Piersanti affida a ognuna delle sue anime perse, ma una riappropriazione di ciò che, in maniera traumatica, era stato sottratto: è la narrazione il dono che Umberto Piersanti fa a Mario, Claudia, Rosaria, Rodrigo e agli altri ospiti della comunità; un dono così grande e potente, e viene naturale pensare a Edgar Lee Masters e alla sua Antologia di Spoon River, da essere capace di trasformare la proiezione di persone già morte, riunite in un cimitero con ancora addosso il nome vita, in una vita di nuovo degna di essere vissuta, dove possono finalmente avere per sé la verticalità libera di quegli alberi che non osavano più guardare dalle loro finestre. Da quel luogo, si può avere finalmente la certezza che “forse la pazzia non esiste, ci sono solo modi di rispondere alle difficoltà della vita. Forse, la normalità non è che timidezza e paura, accettazione delle cose e delle vicende senza tentare di dare una risposta. Forse, l’uomo libero è chi se ne frega della morale comune, delle esigenze del galateo sociale, delle inutili aspettative d’una giustizia che non può essere che causale, provvisoria o spesso ingiusta.”

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