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L’atto estremo dello scrivere

Intervista a Giuseppe Rosato a cura di Fabio Barone

 

Quanti avranno sentito all’improvviso
il buio mistero dell’universo
aprirsi e fermare il respiro, per una
volta o poi per tante altre, l’oscuro
out del pensiero che si fa cieco nulla,
inerte terra chiusa ad ogni soffio
di luce, di vento, quanti? Nessuno
lo dice, non io. Allora tutti
ci portiamo in petto il segreto
di averlo incontrato il mistero
senza fondo, di averne sentito
il brivido tremendo, tutti?
Ma non se ne assottiglia
la pena, non se ne partisce il peso. [i]

Faccia a faccia col mistero dell’esistenza. Queste le parole di un uomo, prima ancora che poeta.
Giuseppe Rosato, classe 1932, condivide con noi oltre sessant’anni di “scrittura in versi”, perifrasi con la quale preferisce descrivere la sua attività poetica. Scrittore di versi dunque, ma anche insegnate di lettere e collaboratore RAI per programmi culturali e radiofonici.
Difficile dire che cosa si provi mentre realizzi di trovarti faccia a faccia con un uomo di ottantacinque anni la cui memoria, densa di ricordi, di esperienza, di dolore, di amore, brilla in uno sguardo vivo e sveglio.
Le domande sarebbero innumerevoli, ma cominciamo da qui.

Giuseppe, che cos’è la poesia?

«Se lo sapessi potrei dirmi poeta, nel senso di “praticante la poesia”, almeno in qualche modo e misura. Continuo invece a considerarmi uno che scrive versi: ne scrivo ormai da sessanta, settant’anni, ma ciò non mi è servito, non mi è bastato, a sapere cos’è la poesia, intendo ad acquisire la coscienza di poeta.
Poesia dovrebbe essere la parola che di continuo edifica, costruisce (così come dice il verbo greco dal quale il termine deriva) quanto sia necessario perché ne siano governati una vita accettabile e i rapporti tra gli uomini, facendosi coscienza dell’umanità. Quindi depositaria e amministratrice degli interrogativi che pone di continuo il mistero dell’esistenza, nel tentativo inesausto di cercare risposte a domande impossibili, che tuttavia ci si pongono come dovere, per quanto destinate a consentire risposte improbabili, provvisorie, insufficienti.
La poesia resta comunque un colloquio col nulla, prova in ogni caso di conoscenza di sé. Di qui la sofferenza continua di porsi davanti al problema, dell’esistenza appunto: che cosa siano la vita e la morte, l’aldilà, il prima e il dopo, e noi chi siamo, da dove veniamo e dove andremo a finire, e l’amore, l’amore nella sue espressione più alta e pregnante.
Scrivere deve, o dovrebbe essere, sottoporsi “liberamente” a questa condanna, giorno per giorno, tanto che escludersene equivalga a tradire un compito che ci si sia assunto senza speranza di condurlo a un esito, quasi come una consapevole ma accettata paranoia».

Perché scrivi?

«Scrivo per darmi, quando sia possibile, notizie di me. Del mio rapporto con me, in primis, quindi con il mondo esterno. Di qui, ancora, per tenere in piedi costantemente il tentativo di conoscere qualcosa della vita.
Devo dire che prima della scrittura c’era stato, già dai miei quattordici anni, il disegno. In termini di prime esperienze di disegno creativo, ero al primo liceo quando uscirono sul Travaso (settimanale satirico assai popolare in quel tempo) le mie prime vignette. A diciott’anni, o giù di lì, il passaggio a scritture meno futili. A vent’anni la Fiera Letteraria pubblicò una mia composizione e fu l’esordio come si usa dire ufficiale».

Da scrittore di versi e lettore avrai avuto dei “modelli” che hai amato, nel tempo. Quali sono stati?

«Dico Montale, prima di tutti, sia quello della parola inimitabile che l’ultimo, o penultimo, disceso a confrontarsi con i meno alati dettati della quotidianità (e del linguaggio medio) e poi Saba, Caproni, il primo Ungaretti. Alfonso Gatto anche, ma c’erano stati innamoramenti con i ritmi metrici sonanti di Raffaele Carrieri e ancora una cara amicizia con Diego Valeri, con Biagio Marin… E una “corrispondenza” tuttora assidua con Franco Loi».

La poesia parla della vita, nasce dall’incontro con essa, possiamo dire che è conseguenza del sentire la vita, soffrirla, nel senso di “portarla su di sé”.
Che significa vivere, secondo te?

«So e me ne dico sempre più convinto, oltre che rassegnato, che vivere sia trovarsi dentro un mistero: questo, dunque, posso dirlo. Il grande mistero che è la nostra esistenza, di cui sappiamo poco, se non nulla. Da dove veniamo, dove andremo a finire. E che ci stiamo a fare su questa terra, quale sia il nostro ruolo: oltre quello distruggere la natura, fare le guerre, uccidersi, curare i propri interessi, a scapito di tutti gli altri miliardi di viventi (o morenti, ogni anno, di violenze o di fame). Liberarsi dal muro che protegge questo mistero induce a tentativi di abbatterlo, o perlomeno di incominciare a scalfirlo: ma sono tentativi che ci accompagnano anche per tutta l’esistenza senza che conducano a trovare risposte – se non parziali e in ogni caso illusorie – ai grandi interrogativi che di continuo ci pone il problema di esistere.
Si sta su questa terra anche “felicemente” distraendosi – a tratti –, cosicché provvediamo a provvederci di tutto ciò che possa abbellire o edulcorare il soggiorno, perfino facendocelo piacere: al punto da farci sentire assai poco mortali, quanto basti perché l’umanità continui a vivere. Tutto qui, in sostanza.
Per quel che personalmente possa riguardarmi, metterei (ma solo come passeggera infiorescenza) la “distrazione” di tracciare vanamente segni sulla carta, ostinatamente. Pur se nella consapevolezza della necessaria inutilità di scrivere».

Scrivere versi è, comunque, un modo per sentire di più la realtà?

«Sicuramente è questo l’obiettivo che giorno per giorno può spingerci a guardarci intorno, presumere di penetrare il segreto di ciò che muove ininterrottamente gli uomini e le cose, per saperne qualcosa e sentirci semmai partecipi. Perché ci si possa considerare uomo tra gli uomini, godendo (di rado) o soffrendo un’avventura che è di tutti, nella disparità e nelle grandi disuguaglianze. Scriverne può (mi trovo a ripeterlo) illuderci di essere comunque in, per il tempo che ci si conceda prima del risolutivo out».

Non perderla la bellezza se il dolore
t’invita a disertarla, stringi forte
il ricordo di un volto ch’era il tuo
negli anni del passaggio, quando
di te colse un amore il primo fiore
badando a non gualcirlo
perché restasse intatto fino all’ultimo
assalto dissipante…
Questo dovevo dirti (avrei dovuto)
ma quando già sapevo
che più non m’ascoltavi ed era tempo
che t’accogliesse il mare
nell’altra sua bellezza, eterna. [ii]

L’amore, il ricordo di tempi andati, di vita vissuta, sono spesso evocati nelle tue poesie. Ma fra tutti spicca il bisogno di tenere vivo nel cuore un amore in particolare, quello per tua moglie.
Che cos’è per te l’amore, se dovessi provare a parlarne?

«Se la vita è il frutto di un atto d’amore si dovrebbe poi vivere sempre per amore, estendendo all’infinito il senso della parola. Ma questo non è mai accaduto e, in modo ancor più evidente, non accade oggi: la cronaca quotidiana viene puntualmente a dirci e confermarci che nell’umanità non c’è più amore. L’evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso” non abita più con noi.
Ma penso che tu intenda riferirti, e forse prima di tutto, all’amore naturale che un uomo sente per una donna e viceversa, e mi chiedi di parlarne. Che cosa potrei dirti di un mistero, connaturato con l’altro, grande, della vita?
Di quell’amore si è fatta, con naturalezza, la mia vita e ne continuo a vivere. Parlarne, ora poi che mi è pulviscolo di mare e di aria nella memoria, significherebbe presunzione e irriverenza nei confronti di quel mistero.
Dell’amore, senza parlarne, invece avaramente si scrive. E per amore si scrive tutto il resto».

Oggi la poesia sembra la più assente tra le forme d’arte creativa, perché?

«Perché prevale la improbabilità del messaggio, che pare sottrarsi a qualsiasi finalità concreta, o almeno ravvisabile. Fare con le parole, come s’è detto, è assunto ormai normalmente estraneo a molta poesia (meglio si dirà scrittura in versi) oggi corrente. Prevalgono le forme variamente intimistiche, o pseudo-narrative, pseudo-saggistiche, e le tentazioni degli sperimentalismi linguistici, nonché le sterili prove protestatarie. Resiste l’handicap di un ascolto limitato (forse incentivato alquanto dalle novità di offerte online ma ancora, o proprio per questo, ugualmente circoscritto, in termini più o meno elitari), insomma una fruizione da amatori. Ovvero una circolazione conclusa tra addetti ai lavori, dunque al di fuori di un ipotetico “grande pubblico”.
Di conseguenza il mercato dei libri in versi non gode affatto di buona salute. Ogni mercato è del resto una regola, per aprirsi al pubblico deve proporgli prodotti desiderabili, o perlomeno nel caso della poesia accettabili, digeribili: sia quanto a comprensibilità che ad assunzione di temi. Che non siano, per esempio, né strettamente privati né troppo distanti – in nome di scelte letterarie elitarie ¬– da questioni legate alla vita sociale, nei suoi presupposti etici, e “politici”. Ma ricette, si sa, non possono darsene, e perché il corso delle cose prenda itinerari diversi da quelli dominanti, è necessario che qualcosa cambi all’interno. Dell’umanità? Sì. Ma ad opera di chi, dei poeti a venire, come si augurava Flaiano? E della rivoluzione, ad oggi nemmeno minimamente pensabile, operata dalla poesia

C’è qualche speranza che la poesia possa recuperare un ruolo, nella società odierna? E che dalla poesia venga almeno qualche risposta agli interrogativi “impossibili” sull’esistenza, di cui prima di diceva?

«Secondo Flaiano la poesia è una vita di scorta, una alternativa da chiamare in causa come antidoto ai guai e ai guasti che vivere normalmente comporta. Ma è certo che una vita di scorta plausibile non sia qualcosa di più concreto, legato a valori quali la ricchezza, il successo, il potere? Si sa che Flaiano era, in pectore, poeta, cosicché abbia avuto sempre in grande considerazione il senso da dare alla presenza auspicabile della poesia nella nostra vita.
Quanto agli interrogativi, direi che qui è il succo dell’esistenza. O vengano, alle grandi domande, risposte malcerte, suscettive sempre di nuovi dubbi e interrogativi ulteriori, o restino inevase. Se a tutto, o quasi tutto, si trovasse una risposta, varrebbe la pena vivere ancora?»

Se a voi, parole, s’affidano
l’ultime stente difese
non mi tradite, siatemi
ancora un poco palvese
prima dell’ultima sfida.
Di voi si vesta estremamente il nulla
ora che ogni altro dispoglia,
flebile sulla soglia una voce
se ne conformi, valga
a far apparire un approdo
la foce dove ci si convoglia. [iii]

L’atto estremo dello scrivere: l’intima necessità di tracciare segni sulla carta nel tentativo di co-appartenere a qualcosa che sempre ci sfugge, che sempre corre; le domande che la realtà pone al poeta, a colui che la “soffre” e ne tenta una risposta, o almeno una rappresentazione fugace. E le parole, custodi della necessità di un senso, ci sono date come ci sono tolte, nell’atto eterno di una luce raccolta in un tempo cieco.

 

[i] Giuseppe Rosato, La Distanza, Book Editore, 2010

[ii] Giuseppe Rosato, Il Mare, Di Felice Edizioni, 2016

[iii] Giuseppe Rosato, La Distanza, Book Editore, 2010

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