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L’antologia dei trenta

Quaderni dell’Orsa. Sotto il più largo cielo del mondo. Trenta poeti dauni a cura di Canio Mancuso e Raffaele Niro, Besa 2016, pp.162.

 

di

Anita Piscazzi

 

Daunia, terra di Matteo Salvatore, il “cantore dei cantori” di Apricena, amico e maestro ispiratore di numerosi testi di Dalla e del centenario Antonio Piccininno, cantore di Carpino, che hanno narrato attraverso stornelli in sette ottavi l’incanto e l’afflato della Capitanata.  Daunia, Stupor Mundi, dove su lastre di marmo dormono da secoli cavalieri longobardi e normanni di gentile aspetto, dove i Santi senza tempo ci invitano a ballare in uno spazio immaginifico mosso dal vento del Tavoliere che tanto sarebbe piaciuto alla mano di De Chirico metafisico. Daunia, antica sub-regione abitata da un popolo di provenienza balcanica vissuto nella Puglia Settentrionale durante l’età del ferro e che oggi è un  insieme di colline, promontori, mare e laghi che partono dal monte del Gargano, dove il volo di Michele, l’Arcangelo, si posò attirando tutta l’Europa cristiana del Mille, per arrivare alle isole Tremiti di Diomede, primo eroe dell’Adriatico, attraverso la spianata del “grano giovane” del Tavoliere, caro a Ungaretti, che del suo viaggio magico nelle Puglie a metà degli anni’30, volle fare un reportage. Di fronte al Duomo della federiciana Lucera, nato dalle ceneri della moschea principale della Lucera saracena, il poeta scrisse: “[…]Sorta sotto il più largo cielo del mondo sulle rovine fumanti d’una moschea”. Ispirati dalla citazione del poeta della guerra, i giovani curatori Raffaele Niro e Canio Mancuso hanno inaugurato il quattordicesimo numero della rivista Quaderni dell’Orsa dedicato interamente alla poesia, intitolando la neonata antologia: Sotto il più largo cielo del mondo. Trenta poeti dauni per i tipi di Besa. Un coro di trenta voci poetiche del Novecento nate fra il Gargano, il Tavoliere e il Subappennino dauno, gran parte viventi e alcuni di loro al di sotto dei cinquant’anni. Niro e Mancuso tracciano tre generazioni che ne suggeriscono l’evoluzione: i padri, come Marino Piazzolla, Cristanziano Serricchio, Francesco Paolo Borazia, Maria Teresa Savino, Joseph Tusiani, Michele Urrasio; i figli, come Enrico Fraccacreta, Emilio Coco, Giovanni Dotoli, Sergio D’Amaro, Francesco Granatiero e i nipoti, come Salvatore Ritrovato, Lucio Toma, Antonio Bux e Marco Rinaldi. L’antologia è impreziosita dall’autoritratto di Andrea Pazienza in copertina e dalle immagini fotografiche paesaggistiche di Matteo Antonacci, Raffaele Battista, Nicola Loviento, Nicola Ritrovato, Mirko Saracino, Alberto Torchiaro. La poesia ha un senso, un significato che deve essere diffuso ovunque, perché tutti devono sapere di poesia, imperativo categorico che i curatori ci invitano a riconoscere, indistintamente dall’amare o dall’odiare, ma suggeriscono di conoscere i poeti della propria terra. Il merito di questo lavoro è di avere messo in risalto la poetica degli autori antologizzati che hanno faticato per andare oltre la regione e farsi riconoscere nel loro modo di poetare: “Lassù, dove una quercia si torceva/Viveva con se stessa, come un sogno/Non contava i giorni/Non sapeva gli anni/Quale ombra fosse chiusa nel suo cuore” (M. Piazzolla). “Se cerchi un paese che stacca/nel lungo sole d’estate/ciuffi di mandorli/sulle delicate colline/e gonfia nelle vigne grappoli di luce/al viandante assetato/è qui tra questi cardi austeri/e il mentastro”(C. Serricchio). Ma esiste qualcosa che li accomuna, nonostante epoche, vissuti e abitudini diverse: tutti tendono all’isolamento sulla base di una vena sperimentale che li porta a sublimarsi per scrivere: “Al paese del vento regnava la polvere/non scorgevamo né vie né muri/le mani aggrappate alle calde pareti/ci bagnavamo nel miele dei sogni”(G. Dotoli). “Quelli della mia età sono cresciuti/a pane e ulive chiusi nello stipo/e trovarne la chiave era estenuarmi/in trepide ricerche e appostamenti”(E. Coco). “Ho bevuto fino in fondo la bottiglia/spumante di illusioni, ma la gola è secca/ E te rivedo dolce riva d’acqua/e ciottoli bianchi e profumate serre/a te m’affido, mano materna d’aranci”(S. D’Amaro). “Il tempo si è messo dietro i nostri occhi/ed è stato subito inverno/non dovevamo pensarci/ma solo regolare la fiamma di una volta”(E. Fraccacreta). I luoghi sono creature millenarie inconsciamente intrappolati nel nostro DNA. E questo scrivere poetico potrebbe essere un’altra maniera per conoscere la nostra terra. Molti autori, da tempo, non vivono più dove sono nati e scrivono con stili, linguaggi e temi differenti, alcuni solo in dialetto e si appellano a questi luoghi in nome di una non appartenenza. “All’inverno dedico una stanza/fredda piena di vento e neve/vi passo quando voglio per un pertugio/frugando nei polmoni il caldo/residuo fiato che svapora” (S. Ritrovato). “Di ogni vana funzione/vocativa senza nome/un oggetto è ombra/della propria forma”(A. Bux). “Madre/se cantando del mio calvario sono/stato il figlio un poco strano, perdonami” (L. Toma). Il fiume carsico che scorre lungo le vite dei poeti antologizzati è il calvario del distacco dalla propria madre, dalla propria terra e della sofferenza di non essere riusciti, in qualche modo, a completare e a realizzare la propria esistenza lì, in Capitanata. Così la Daunia diventa il luogo dell’eu-topia, cioè a dire della felicità e, come bene puntualizzano i curatori nell’introduzione: “C’è però un’altra specie di paesaggio, elaborato in interiore homine, cioè il sentimento del luogo in cui si è o si vorrebbe essere”. Insomma, una Daunia dell’altrove.

 

 

A.P.

 

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