La vita come incubo. La poesia di Amendolara

Il corpo e l’orto(La Vita Felice, 2014) è la raccolta postuma di Marco Amendolara che raccoglie liriche che vanno dal 2005 al 2008, anno della prematura morte dell’autore, a soli quarant’anni.

La poesia di Amendolara è una poesia totale e complessa, come complesso è il sistema filosofico alle spalle. È la poesia del mondo che non trova scampo nello sguardo disingannato dell’uomo. Ma è anche il luogo dove l’uomo e in particolare l’io, non trova scampo. È la poesia dello scambio senza scampo. Tutto è messo in ballo, di nuovo, o meglio archetipicamente, nel gioco dell’illusione/ disillusione. Cosa si salva? C’è qualcosa che si salva? Qualcosa che salva?

“Guardami, il mondo si è consumato,/ il freddo ha rovinato ogni presenza; / e se anche il dolore, l’ansia, / il terrore, non altro che illusioni?”

Al centro del discorso è l’uomo in coincidenza col corpo, in un binomio di superamento della contrapposizione forma/sostanza, custodia/custodito: “coincidi veramente con il tuo corpo,/ o sei altro, sei in altro, / e non lo sai?”

Il corpo umano elude il concetto di eternità e non per una questione biologica ma perché – aveva rilevato già Barthes – è un oggetto modificato dalla storia, dal rapporto con la società: il corpo nella sua accezione moderna, nella sua fragilità. In Amendolara c’è il senso del cambiamento tipico dell’uomo in rapporto alla società e di conseguenza la fragilità ma c’è anche la “logica della visione”, una visione che è già dentro l’uomo, preventivamente, e che probabilmente deriva proprio dalla logica del cambiamento: “la natura diventò una visione./ gli oggetti, le presenze, i frutti/ attraversati dal tuo sguardo.”

Forse se c’è qualcosa che salva è quella identificazione e comprensione uomo/natura che tanto avvicina la poesia di Amendolara a quella classica: le cose del mondo acquistano una sensibilità, natura e corpo in simbiosi, ed ecco la vicinanza alla poesia virgiliana degli asili, dei disagi, della terra come teatro dell’esercizio del travaglio umano.

Ma il punto è con cosa coincide la tanto sperata e irraggiungibile “felicità”? Con cosa se non con l’annullamento di questo “io” con cui il poeta fa continuamente i conti, senza tregua. E con una fine. È tutto un consumarsi nel consumato, un corpo che da sempre, dall’inizio, non è pronto ad accogliere. Come se fosse già tutto scritto oppure un lungo e luttuoso convergere delle cose nella terra: “il dialogo si è interrotto,/ abbiamo smarrito le parti. / Resta un sospetto: che sia vicina/ la fine di un dolcissimo incubo”.

Melania Panico

 

Guardami, il mondo si è consumato,

il freddo ha rovinato ogni presenza;

e se anche il dolore, l’ansia,

il terrore, non altro che illusioni?

Parla il tuo sguardo, senza ingorghi

di punteggiatura.

Tanti brividi nel corpo:

non conta che cosa abbiamo fatto,

se vuoi credere contro

ogni evidenza,

fino a ingannarti.

 

*

Come per una musica interiore

non ti accorgevi quanto crudelmente

rapidi e ladri fuggissero

i giorni,

mentre chi incontravi apriva e chiudeva

parentesi piene di cronologie,

neanche fosse stato impiegato

all’anagrafe.

Ma il tuo corpo non eri tu,

e una volta cancellato quello,

la forza segreta che lo muoveva

sarebbe balenata libera:

sarai tu, salvo.

 

*

Quando non hai corpo ti conosci meglio,

scorre e dice l’acqua

mentre si specchia in te;

quando non sei corpo

susciti ogni meraviglia

e, meravigliato, sei sbigottito

della conquista.

La natura ti annulla, è niente,

e tu sei natura.

 

*

Danza l’aria crudelmente blu,

se riflessa negli occhi

aspira a muovere il tuo sguardo

e ondeggiano platani, salici, felci

e anche vegetali eminenti,

di cui il nome si è perso nel vino.

Il dialogo si è interrotto,

abbiamo smarrito le parti.

Resta un sospetto: che sia vicina

La fine di un dolcissimo incubo.

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