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La verità di Francesca. Di Barbara Herzog

Francesca Serragnoli

Aprile di là.

LietoColle -Pordenone legge

Francesca scorge le minuzie quotidiane che ad altri occhi sfuggono e le regala al lettore con tutta la dignità che spetta ai singoli istanti che in realtà costituiscono la parte maggiore di una vita.

Ridà vita a sfumature di emozioni immense su carta come pochi riescono a fare, e la bellezza della cruda e semplice esistenza travolge.

Senza i ghirigori di chi vorrebbe parlare d’amore per risultare soltanto stucchevole, Francesca scrive versi di amore palpabile, concreto. Quello che non ha volto, né sesso, né età. Che è pieno, consapevole. Disperato e rassegnato.

Condivide la contemplazione di moti di vita e morte, con l’impeto di chi vi è immerso con mani e piedi, ma nella calma della fede.

Rispetto alla scrittura antecedente risulta più sicura di sé. I piedi più saldi permettono un velo di umorismo. Una certa vacillazione è maturata in consapevolezza, ma con tutta l’umiltà di chi ogni giorno vuole percepire il creato.

Prospetta un ritorno alle radici, all’essenza. Dei gesti, dei suoni, degli intenti. Un ritorno allo stupore e quindi alla lucentezza che collega l’umano al divino.

Francesca invita con i fatti a non correre oltre verso una frenesia cieca, ma ad incedere piano, contemplando. Ad accarezzare con le dita i solchi scavati dalla vita, ad accendere il fuoco nel blu della notte e far splendere i volti alzati verso il cielo. Al respiro a pieno petto nella calma e nella tempesta.

Abbiamo questa vita. Questi impastamenti di cuore, questi addii. Attimi in cui ci tenta l’abbandono. Quindi “Ogni respiro è una bandiera bianca davanti a Dio”

 

 

 

 

Questo dolore sgretola

ogni risata in un pugno di terra

la neve diventa gelo, trasparenza odiosa

gli abbracci sembravano radici duva

cadono come fili legati a un tronco morto

e quel pianto che ci lega le mani

schiena contro schiena

non è unaquila crudele

che ha nidificato nei nostri sguardi

 

non sappiamo bene chi dorme fra noi

chi trova ancora uve mature

chi beve vino e ci osserva

questo vuoto rallenta i precipizi abituali

le valli hanno il cielo plumbeo

e moriamo e continuiamo a vivere

rimane un altare di pietra fredda

dove le ginocchia sanguinano

 

 

 

 

Lei è sicuramente figlia di qualcuno

ne vedi la madre forse

scendere nel naso, dentro il bere

un sorso dacqua, respirare subito

locchio nero delle notti africane

 

lì c’è tua madre le avrei detto

scuce e ricuce la tua partenza

come una ferita colorata

 

ha messo del latte

dentro un vecchio bicchiere

appoggiato alla finestra

la vedi agitare le mani

come facesse trecce alla pioggia

 

 

 

 

 

Tanti non hanno più la primavera

fra le cose le bucce

gettate nel secchio

le tapparelle alzate a metà.

 

Restano faccia a faccia con la sera

mangiano su cumuli di anni

infilano parole sotto tavoli che ballano.

 

Non hanno la primavera

fra i tegami, dietro le tende

non dicono laria ha ventanni e scendono.

 

Chiudono la zip, girano porte dautogrill

la notte è un teatro greco abbandonato

gli occhi ruvide pietre dimenticate dal pianto.

 

Le stelle a testa bassa fanno la maglia

intrecciano il vivere, il morire.

Le punte fredde di quei ferri

mi pungono la schiena.

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