Francesca Serragnoli
Aprile di là.
LietoColle -Pordenone legge
Francesca scorge le minuzie quotidiane che ad altri occhi sfuggono e le regala al lettore con tutta la dignità che spetta ai singoli istanti che in realtà costituiscono la parte maggiore di una vita.
Ridà vita a sfumature di emozioni immense su carta come pochi riescono a fare, e la bellezza della cruda e semplice esistenza travolge.
Senza i ghirigori di chi vorrebbe parlare d’amore per risultare soltanto stucchevole, Francesca scrive versi di amore palpabile, concreto. Quello che non ha volto, né sesso, né età. Che è pieno, consapevole. Disperato e rassegnato.
Condivide la contemplazione di moti di vita e morte, con l’impeto di chi vi è immerso con mani e piedi, ma nella calma della fede.
Rispetto alla scrittura antecedente risulta più sicura di sé. I piedi più saldi permettono un velo di umorismo. Una certa vacillazione è maturata in consapevolezza, ma con tutta l’umiltà di chi ogni giorno vuole percepire il creato.
Prospetta un ritorno alle radici, all’essenza. Dei gesti, dei suoni, degli intenti. Un ritorno allo stupore e quindi alla lucentezza che collega l’umano al divino.
Francesca invita con i fatti a non correre oltre verso una frenesia cieca, ma ad incedere piano, contemplando. Ad accarezzare con le dita i solchi scavati dalla vita, ad accendere il fuoco nel blu della notte e far splendere i volti alzati verso il cielo. Al respiro a pieno petto nella calma e nella tempesta.
Abbiamo questa vita. Questi impastamenti di cuore, questi addii. Attimi in cui ci tenta l’abbandono. Quindi “Ogni respiro è una bandiera bianca davanti a Dio”
Questo dolore sgretola
ogni risata in un pugno di terra
la neve diventa gelo, trasparenza odiosa
gli abbracci sembravano radici d’uva
cadono come fili legati a un tronco morto
e quel pianto che ci lega le mani
schiena contro schiena
non è un’aquila crudele
che ha nidificato nei nostri sguardi
non sappiamo bene chi dorme fra noi
chi trova ancora uve mature
chi beve vino e ci osserva
questo vuoto rallenta i precipizi abituali
le valli hanno il cielo plumbeo
e moriamo e continuiamo a vivere
rimane un altare di pietra fredda
dove le ginocchia sanguinano
Lei è sicuramente figlia di qualcuno
ne vedi la madre forse
scendere nel naso, dentro il bere
un sorso d’acqua, respirare subito
l’occhio nero delle notti africane
lì c’è tua madre le avrei detto
scuce e ricuce la tua partenza
come una ferita colorata
ha messo del latte
dentro un vecchio bicchiere
appoggiato alla finestra
la vedi agitare le mani
come facesse trecce alla pioggia
Tanti non hanno più la primavera
fra le cose le bucce
gettate nel secchio
le tapparelle alzate a metà.
Restano faccia a faccia con la sera
mangiano su cumuli di anni
infilano parole sotto tavoli che ballano.
Non hanno la primavera
fra i tegami, dietro le tende
non dicono l’aria ha vent’anni e scendono.
Chiudono la zip, girano porte d’autogrill
la notte è un teatro greco abbandonato
gli occhi ruvide pietre dimenticate dal pianto.
Le stelle a testa bassa fanno la maglia
intrecciano il vivere, il morire.
Le punte fredde di quei ferri
mi pungono la schiena.