Nota di lettura di Melania Panico
Claudia Durastanti, La straniera, La nave di Teseo, Milano, 2019
“Mia madre non sopporta la fiction, per questo tifava sempre per le canzoni dal risvolto sociale, quelle che di solito vincevano (si parla del Festival di Sanremo nda), dato che diventavano argomento di discussione sui quotidiani. Credo che fosse il suo modo di sostenere la vittoria del significato rispetto al suono, per vendicarsi dei rari pezzi prevalentemente strumentali che non davano indizi alle persone come lei. Quindi forse è più accurato dire che in quel concorso specifico, mia madre era alla ricerca del miglior racconto di non fiction dell’anno”.
Quando chiudo La straniera di Claudia Durastanti, giovane autrice e traduttrice già molto stimata (il suo romanzo d’esordio Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra ha avuto un ottimo successo di pubblico e critica, vincendo anche alcuni importanti premi letterari), mi accorgo di aver riempito il libro di piccole pieghe, una per ogni pagina che mi ha colpito duramente. Mi ritrovo a scriverne per una necessità di parlare a me stessa e perché questo che ho letto è stato un libro doloroso, come non mi aspettavo, come non succede spesso. Ci sono stati momenti, durante alcune notti, in cui ho alzato la voce mentre leggevo, incredula di come l'autrice avesse trovato la forma giusta, proprio quella forma, per scrivere un romanzo che potremmo definire autobiografico o meglio un romanzo in cui autore e narratore coincidono. E in effetti la forma è uno dei primi elementi su cui ho riflettuto, e ora mentre ne parlo, perché se dovessi riferirmi alla trama non troverei un inizio o una fine, non troverei un bandolo della matassa in questo libro fatto di andate e ritorni, di fughe, di malinconia, di mediazione. Un libro costruito sulla necessità di trovare una strada, una lingua, un'appartenenza. Un libro costruito sull'idea che il passato sia una sorta di corredo genetico che ci portiamo dietro e dentro, una eredità non sempre bella ma con cui si fa i conti ogni volta. La straniera è un libro che parla di famiglia? In un certo senso sì o forse di una mitologia della famiglia. La straniera è un libro che parla dell'altro, se l'altro coincide anche con quella parte di noi che è interna allo strano concetto di migrazione, dell’andare verso qualcosa per cui troviamo la strada mentre camminiamo, qualcosa in cui i limiti passato/futuro ancora non sono ben definiti.
“Straniero è una parola bellissima, se nessuno ti costringe a esserlo; il resto del tempo, è solo sinonimo di una mutilazione, e un colpo di pistola che ci siamo sparati da soli.”
Il lettore è da subito catapultato in una storia di migrazione al contrario, ovvero la storia di un trasferimento da Brooklyn (dove la protagonista è nata, da genitori italiani) a un paesino della Lucania, in seguito al divorzio dei due genitori. Siamo di fronte a due tipi di necessità di integrazione o meglio di mediazione linguistica: quella che avviene quando ci si trova in un Paese nuovo (ho imparato a leggere e scrivere in italiano, ma la mia lingua conteneva sempre un margine di errore che faceva ridere gli insegnanti. Dicevo “stiro da ferro” invece di “ferro da stiro”, “bega” invece di “busta”), e quella pregressa, ovvero derivante dal rapporto con la sordità di entrambi i genitori della narratrice. La madre diviene da subito agli occhi del lettore una delle figure principali del romanzo: “mia madre è sempre stata la stessa, ma io sono stata la figlia di donne diverse. All’inizio era un’handicappata. Poi è diventata una disabile. Per attimi è stata una donna diversamente abile, ma tutti siamo diversamente abili. A un certo punto non era che una pazza. Oggi è una persona che sta su internet”.
Attraverso un linguaggio a tratti cinematografico, non privo di elementi grotteschi e di colpi di scena, Claudia Durastanti scrive un romanzo di formazione e di appartenenza, nel quale il verbo principale in scena è “tradurre” che in questo caso non significa mai “tradire” ma edificare, talvolta dal vecchio, talvolta da un nuovo che sa di futuro e per questo ancora non esiste, ma esisterà. Paradossalmente è proprio la figura quasi astratta per quanto viscosa e profonda della madre il fuoco di questa “traduzione”, fuoco che si dipana nelle cinque sezioni del libro concepite come voci di un oroscopo: Famiglia, Viaggi, Salute, Lavoro & Denaro, Amore, Di che segno sei, come se si cercasse sempre un destino scritto, facile, e allo stesso tempo una necessità di disegnare rotte personali, nuove e indipendenti, una felicità personale, una casa che sappia raccogliere con tenerezza e senza dissimulazione i fantasmi.
“Di che segno sei”, l’ultima sezione del libro, si apre con una frase di Jean Rhys: “Cammini lungo la strada, contenta. Inciampi. Cadi nell’oscurità. Quello è il passato. O forse è il futuro”. Anche qui c’è il destino strano di questo libro, con la sua bella idea di fine, che poi, si sa, aiuta a tenere insieme le cose.
Claudia Durastanti (Brooklyn, 1984) è scrittrice e traduttrice. Il suo romanzo d’esordio Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (Marsilio, 2010) ha vinto il Premio Mondello Giovani.
Ha scritto A Chloe, per le ragioni sbagliate (minimum fax, 2013) e Cleopatra va in prigione (minimum fax, 2016), tratto dall'omonimo racconto pubblicato nella raccolta L'età della febbre (minimum fax) in corso di traduzione in Inghilterrra e in Israele. È stata Italian Fellow in Literature all’American Academy in Rome.
Collabora con “la Repubblica” e vive a Londra. Il suo ultimo libro è La straniera (La Nave di Teseo, 2019) in corso di traduzione in numerosi Paesi.
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