di Andrea Galgano
Lucio Toma, Strada di Damocle, prefazione di Anna Maria Curci, Arcipelago Itaca (2019), pp. 84, Euro 13
La poesia di Lucio Toma, poeta di San Severo, possiede un’apparente asprezza, che sembra discostarsi, se non proprio acquattarsi dentro il contrario, l’ossimoro, la corrosa linea degli itinerari e degli sguardi. Conoscere la crudezza significa percepire la vertigine del contrasto come approccio di intuizione e percezione, ma anche sentire addosso la tensione oscura e vitale di una presunta amarezza, che però, racchiude un’armonia in divenire.
Nella sua raccolta, Strada di Damocle, edita da Arcipelago Itaca, raccoglie una angolatura complessa che, come afferma Anna Maria Curci nella prefazione, «è attraversata da una disposizione all’umor nero che non intende lasciare spiragli di vaghezza né superflui e fallaci sfiatatoi. L’osservazione, la constatazione amara e, nonostante la lucida sobrietà, il coinvolgimento affettivo, si allargano a comprendere più ambiti di “varia umanità”, come testimoniano le cinque sezioni nelle quali si dipana la Strada di Damocle».
L’urgenza dell’io, come testimoniato dalla prima sezione, Vestito di vita, racchiude l’enigma di uno scontro, di una vivace acrimonia, sospesa e innervata nel tempo. La lotta è senza fine, non solo contro la malora o lo scontento, ma contro la penuria, l’attesa spasmodica, i giorni come proiettili: «In una pagina della mia vita / (avevo anni per Dio / da rivedere e correggere) / fui chiamato alle armi, / alla naia di parole / senza capire contro chi dovessi / combattere, chi fosse il nemico. / Fui riformato sulla strada / di Damocle mani in alto / che le domande ammutinavano. / Per la verità è difficile schivare / i giorni che piombano addosso come / proiettili e possono ucciderti / se non vuoi farti ammazzare».
Il gioco di rimandi (spada/strada) ha incombenze ultime, frequenta l’aporia del quotidiano, con i suoi colpi di scena e le sue lacerazioni di gorghi affilati («E sarà mia cortesia / affidarla al gorgo affilato / dei giorni-mesi-anni fino / a che non si stemperi / una miniatura di me»), di giunture e fiato, dove la redenzione è un’emersione di salvezza che non ha ombra di bestemmia, contro la malasorte e la morte.
Il cuore della poesia di Toma è lo spostamento lirico della vita indossata, nonostante le scorie e il silenzio, gli inquilini dei sogni, le parole scarne e smussate: «Miro all’incastro del sentire / col dire, / ordito di pensieri / in parole da imbastire con un filo / di enjambement / e così gioco a fare / la vita nel modo più serio / neppure se vivessi… / E quando sembra pronta la taglia / mi stringe sul petto che non credo / calzi come Dio comanda. / La gloria del non detto-fatto, la missione / reclama qualche giusta sutura, / il riporto, il verso a misura / perché è solo quando la matassa / di parole da cui mi lascio trascinare / va a districarsi con rara / esattezza di ciò che intendo / che l’opera è fatta / e finalmente / posso indossare la vita».
In Salone di varia umanità, gli equivoci e i soprusi, come afferma Anna Maria Curci, «i tic e le piaghe di luoghi comuni e di colpevoli e reiterate sciatterie si manifestano in altri ‘osservatori’: le feste di paese (Festa madornale), il salone del barbiere (Salone di varia umanità), il banco del macellaio come luogo sarcasticamente elettivo dello scempio perpetrato sul linguaggio (La lingua macellata), le incursioni forzate ai centri commerciali, l’annientamento del rispetto nei gesti di elementare noncuranza».
E allora notiamo questa umanità in mostra, a volte sofferente e avvilita, ma luminosa, ripresa in un fondo di bellezza e levità, pietas e ricordo, stridore e strappo, smascheramento e intelligenza. In questo territorio affrancato dalla lirica, la suggestione poetica e, diremmo il suo gesto, si porge senza risparmio, raccontando gli annegamenti dopo gli sbarchi, come uno spostamento naufrago in lotta per la salvezza.
Persino l’ennui si apre a un rovesciamento, allo sfacelo, alla pronunciazione di una vita sciolta in dramma: «Con la sfilata dei corazzati la festa / è davvero finita: sciolte le righe / i ricordi s’acquietano dentro / un buco allo stomaco. È ora / di pranzo: si va tutti in pace / dritti in quella tavola calda / che ha aperto da poco».
In Affetti e difetti, la poesia lacerata del quotidiano si riporta alla coniugalità, alla dimensione paterna e filiale, appunto, per cercare, non già intermittenze, ma calibrature rammendate, il celeste dei giorni, la memoria rifugiata, l’amore che sazia di rabbia, lo sguardo lontano che stringe i denti.
E infine l’ultima sezione, Esiti, giocata sull’ironia che gioca su un azzardo, come scrive ancora Anna Maria Curci, «prendere di petto luoghi comuni nell’intercalare di tutti i giorni, costellandone le composizioni». La stratificazione rarefatta, che Toma mette in atto, è una percezione di senso, una scomposizione della realtà, che attraverso il divertissement, la saturazione, la resistenza alla storia dispone la lingua a una torsione ricercata e una fenomenologia dello sguardo che desidera liberarsi dal soffocamento, attraverso l’incontro, il respiro, la solidità, per lasciare un’impronta non in mano alla devastazione.
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