“La signora dell’acqua” di Daniele Cavicchia

di Elena Verzì

Daniele Cavicchia, La signora dell’acqua, Passigli Editori 2011

La signora dell’acqua di Daniele Cavicchia è un volume prezioso come un diamante: vorresti mostrarlo a tutti, così che ciascuno possa ammirarlo e allo stesso tempo gelosamente custodire perché tuo e di nessun altro. La poesia è un fatto personale e il poemetto di Cavicchia pubblicato per Passigli Editori nel 2011 è un dono che non può esser riservato a pochi, necessita di luce e reclama la nostra voce.
I versi si sciolgono dolorosamente ma con dolcezza, in una lingua che tutti conosciamo fatta di amore, di perdite e di domande. Non c’è uomo sulla terra immune a questo destino. Nell’opera di Cavicchia non c’è disperazione, ma un flusso eterno e infinito che si sviluppa attorno alla figura dell’acqua e della sua Signora che narra e risponde proprio come fa la poesia, e per citare Sergio Givone nella prefazione alla raccolta: “A chi la signora dell’acqua si riferisce in terza persona, se non a se stessa?”
C’è stata, c’è, e ci sarà. Lei, la signora dell’acqua è fluida, è pensiero, un flusso che se pur si scompone ritorna come un’eco e si fa nuova nella voce di un presente che del futuro sa di non sapere chi era nel passato.
Con questi versi veniamo introdotti all’opera di Cavicchia:

Tu abiti una frase che non so scrivere
una che abbia un senso
perché di te hai detto esistendo

L’immagino breve eppure senza fine
come un giorno che somigli alla tua bellezza
forse come l’acqua, la sua trasparenza

Tu che torni all’interno di un rito da compiere
ombra che ama ombra
nel silenzio pieno di parole

Esisti nella materia compiuta dei tuoi occhi
nell’azzurro che non tradisce
nella giustezza che ti crea spazio

Tu abiti una frase che non so scrivere
ma sei una data certa
in questo tempo che sfarina.

(pag 9)

Appare collocata temporalmente in una dimensione fissa, conosciuta, eppure parla dell’infinito; ella, la signora dell’acqua è madre e figlia che si manifesta come luce e “rivela il limite di un confine” quello dell’uomo e delle domande che a lei rivolge e le cui risposte possiede già ma, per dirla con i versi di Cavicchia, “nel tempo la forma è mutata”.
Il poemetto si srotola in sezioni, con chiarezza emergono i richiami alle Sacre Scritture – il rotolo, le tende, lo spirito e il tempio – e l’uomo si presenta come ricercatore e profeta in costante dialogo con la figura femminile di riferimento, con una devozione totale ed esplicita alla potenza “generatrice di senso”. La signora dell’acqua si mostra nel silenzio, è respiro, è punto focale della ricerca di senso. L’uomo errante segue le indicazioni fino a giungere al luogo delle domande. Non è forse l’amore il luogo da cui sgorgano le domande, non è dall’interesse che si scorge il dubbio e la voglia di conoscenza?

La signora dell’acqua capì nella breve visita
di aver generato uomini convinti di essere dèi
artefici del perdono, avendo stabilito
che prima di loro il peccato non esisteva
perché loro stessi erano il peccato,
rivendicato di essere tra i primi uomini
e conferito al sangue un odore diverso.
Lo stesso che avrebbe inondato la terra
e ferito per sempre gli occhi dei sapienti.

Chi era andato per trovare non sapeva cosa cercare
avendo smarrito il senso del divino,
la parola donata, la prima domanda.
Chi era andato era rimasto
come cornice senza immagine
bocca senza sorriso
come l’assenza che lo vestiva.

Questo viaggio attraversa l’incomunicabilità del rivelare la parola, che non è incapacità di stabilire un codice, ma una difficoltà che nasce dall’identificare se stessi e il senso che ne portiamo, essa protende verso la verità, in un segreto dalla lingua sconosciuta che diventerà sempre più chiara sotto lo sguardo di colei che ne porta la memoria.

Non fummo ciò che siamo e non saremo
era scritto sulla lapide destinata all’eternità,
in un giorno che poteva essere di ottobre
quando sembrava che tutto dovesse perire
e il cielo infinito se l’infinito fosse stato possibile.

L’uomo annunciato poteva conoscere la verità
se la verità è possibile ed esserne geloso,
oppure rivelarla se è possibile farlo
e forse qualcuno l’avrebbe accolto, altri lapidato
in virtù di una legge che rivendica il principio
che ognuno, con la propria lingua, ha adattato.

Ciò che siamo, probabilmente saremo,
ma ciò che saremo non saprà chi eravamo.

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