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La poesia di Isabella Bignozzi tra visionarietà e crudo realismo

di Franca Alaimo

Isabella Bignozzi, Le stelle sopra Rabbah, Transeuropa 2021

Le stelle sopra Rabbah è un libro che mette in scena, avvalendosi di un variegato impasto di lemmi attinti a varie sfere del sapere, la rappresentazione, spesso inquietante, dello sfrigolio tra un’accesa visionarietà e un crudo realismo, che rimanda a generi altri, come la cinematografia noir o certa produzione fantascientifica.
Il lettore sembra perdere ogni riferimento spazio-temporale, ora viaggiando a ritroso nel tempo (dal brodo primordiale alla comparsa degli organismi viventi, dalle prime civiltà orientali alla fine dell’Impero romano, icona di ogni decadenza – alla maniera di Paul Verlaine – come la società contemporanea, caratterizzata dal più sfrenato capitalismo e da una feroce devastazione ambientale), ora galleggiando nell’infinito spaziale, tra presenze angeliche, silenzi irreali e un guizzare d’astri, in cerca di un approdo a nuove terre, secondo l’esoterismo cristiano di autori come René Guénon.
La lingua possiede una potenza inventiva – che fa pensare ad autori come Blake o Perse e perfino al Dante delle Rime petrose e dell’Inferno, o a Laborintus di Sanguineti – la cui efficacia è affidata all’uso di un lessico corrosivo e aguzzo, che trova i suoi simboli reiterati in pietre, rocce, vetri, cristalli, strumenti che evocano come realtà possibile il danno all’integrità fisica, ma anche altre radiose possibilità : “considera l’acqua / le sue vie calcaree / le sue furie di sale // somiglia alla grazia / questo suo scavare gelido / molle di luce”.
Il sanguinamento e altre forme di sofferenza costituiscono in qualche modo il contrappasso del male operato da un’umanità sempre più lontana dai valori dello Spirito, e caduta in una sorta di abisso infernale.
L’autrice sembra assumere su di sé il compito tanto della denuncia e della condanna, quanto quello della custodia, come una vestale chiamata a tenere acceso il fuoco divino che, mentre distrugge, purifica e rende fertili le ceneri sviluppatesi dall’incendio, sullo scenario di una natura millenaria: “I fiori schiusi ci guardano radiosi / divaricati nello splendore di una riva / – il rovescio di ogni petalo riflette il nero dei millenni – / e con velluti colorati di linfa d’iride / ci raccontano della fiaba di clorofilla / dei corpi sacri d’ombra e maestosa corteccia / guardiani immobili del pianeta d’acqua / che ruota sull’asse nello smisurato buio”.
Nonostante le dure visioni, Isabella Bignozzi indica, infatti, una via per la ricostruzione, sostituendo al “dio barbarico” degli uomini dissoluti, la mente prodigiosa “di cromatiche possibilità” di un altro Dio; all’orizzonte cieco dell’uomo ridotto a cosa che consuma cose, contrappone “dilatati universi” e “paradisi stellati”, “metageometrie” e “una diversa cosmogonia”, creati da “un’intelligenza remota che li espande – e si espande”.
A ragione Elio Grasso scrive nella postfazione che: “L’autrice capisce che gli anni puliti si avvicendano sempre più a rivolgimenti dolorosi” e si augura che la poesia attuale possa trovare “antidoti al frastuono e repertori inediti”, quali quelli offerti dalla scrittura di Isabella Bignozzi.

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