Non me ne frega niente di esser consolato. L’uomo è inconsolabile da ogni cosa o presenza umana, figuriamoci dalla poesia. Solo un Dio consola il dolore o la verità umane che sono appunto roba troppo grande per un uomo. Solo il creatore – se c’è e se si manifesta qui e ora, come ricorda bene Munforte in postfazione- colma l’impronta, la ferita della creatura. Fa bene Federica D’Amato nella antologia “La consolazione della poesia” a chiamare alcuni poeti – a sceglierli- non per un banale lavoro di vetrinetta ma intorno a un nodo importante. La poesia è consolazione ?
No, viene appunto da ripetere leggendo testi e introduzioni di questo intenso libro edito da Ianieri con i testi di Antonio Bux, Sonia Caporossi, Alessio Di Giulio, Francesco Iannone, Valerio Nardoni, Giussppe Nibali, Bernardo Pacini.
Ognuno di questi autori – dando testi di differente valore e forza- cerca di stare e di sfuggire al tema dato. La diversità delle posizioni e dei risultati confermano la bontà della idea coraggiosa della curatrice di non fare la ennesima antologia di “voci nuove” – che poi spesso nuove non sono- ma di chiamarle a rispondere a una questione per lei urgente.
In molti di questi testi e riflessioni si indugia su un presunto “testimoniare il proprio nulla” ( Bux). Ma allora non si dovrebbe dunque tacere o prender solo umile atto della contraddizione, e tentare ancora una volta piuttosto l’indagine poetica del vivente ? E invece che sentenziare che esso è nulla, anche quello nel microcosmo del proprio io, non si dovrebbe poeticamente abitare il mondo, cercandone il segreto, come diceva Ungaretti, invece che inchiodarlo presuntuosamente a uno statuto di nullità ? “Dalla vita stessa non c’è consolazione se non nell’assenza di vita”, si dice, ma allora la poesia di che presenza dice? Di quale altra possibilità si dà pronuncia oltre al gioco della presenza consolabile solo dalla negazione? Davvero non succede qualcos’altro ? La D’Amato non a caso apre l’introduzione citando Cappello, già da me altrove indicato come nostro attuale D’Annunzio ( e sia detto senza ombra di diminuzie e o scherno nei confronti delle belle poesie di Pierluigi, anzi): scrivere è preparare il proprio fallimento. Il tragico vate di Pescara avrebbe controfirmato questa affermazione di nichilismo voluttuoso. Ma quel fallimento che declina in alcuni poeti qui presenti in testimonianza del nulla ( leggere la poesia di D’Annunzio ai propi cani, dove l’uomo è guardiano del suo nulla) non è forse meglio interpretabile come fallimento rispetto a un dominio sul mondo che appunto è impossibile a ogni parola umana – poiché di un altro dominus, e non del povero dominus scrivente ? Insomma, se si parla di poesia stando nei pressi della morte, in una specie di religio negativa – come sapevano fare bene Pascoli e Rilke- si permane nella zona arcibattuta da tutta la grande poesia novecentesca, figlia di un grido sulla morte di Dio e brancolante orfana di una consolazione alla ferita -alla Sua impronta- che comunque arde e brucia. Molta poesia ha ricavato la propria forza e il proprio valore proprio dal sostare su questo precipizio inquieto. Ma il Novecento è finito, e da voci nuove si aspetta il coraggio di uscirne.
Per fare uno scatto ulteriore – quello al mio avviso indicato da talune grandi esperienze di fine Novecento, da Luzi a Walcott, a Heaney – occorrerebbe partire dal prodigio del vivente, dallo stupore ( quando una antologia sulla poesia come stupore? ) rinnovato per l’essere, dalla metamorfosi irrefrenabile del vivente, e non continuate ad aggirarsi intorno a una ipoteca mortuaria tanto fascinosa quanto semplice da gestire. Lo scandalo vero che la poesia registra e di cui si nutre non è la morte o il fallimento, ma l’essere e il suo proporsi. E se fallimento dev’essere ed è, sia quello di chi china il capo e ringrazia e stupisce di non trovarsi- con le proprie fallibili parole- creatore del mondo. La poesia non consola perché – viene detto in vario modo nel libro- essa ripropone il problema, allarga la ferita. Mai essa diviene farmaco, nonostante in alcuni autori venga evocata come tale. La poesia è semmai una vita senza farmaci. A meno che non si giochi con le parole, e non mi pare per nulla che i protagonisti di questo libro vogliano farlo, la poesia che riconosce di non essere consolazione ha due vie che si aprono davanti a sé: vibrare di un ultrasuono di preghiera o di bestemmia (il che è speculare e simile) oppure darsi come ornamento (consolatorio il giusto) di un mondo pregiudicato dalla sua nullità. Ma il mondo non è nulla, è. Misteriosamente é.
C’è in molte pagine di questo libro colto e denso, una vicinanza alla morte, quasi una voluttà nel riferire il fenomeno poetico alla morte- non a caso forse si citano tre poeti suicidi nella introduzione. Ma al tempo stesso risulta nei suoi testi e nel suo impegno uno dei libri più vitali di questo periodo. Nello scritto finale, intenso e acuto, Giuseppe Munforte, ci offre una pista per seguire il tema dell’antologia, le sue ambiguità e le sue flessioni.
Davide Rondoni